Monday, May 24, 2010

THAI CRISIS BACKGROUND. (Il background della crisi tailandese)

La Thailandia è stata per secoli il ponte economico e culturale tra India e Cina, l’aristocrazia ha nomi di origine sanscrita, la gente mangia curry indiano, ma usa i bastoncini e i suoi imprenditori sono di origine cinese. La sua politica è un concentrato delle due civiltà e forse anche per questo è tortuosa, estremamente complicata, contorta come forse nessuna politica da altre parti del mondo.

La crisi politica thailandese attuale affonda le sue radici in questa tradizione e in questo terreno ed ha certo più strati di una cipolla, per spiegarla semplicemente bisogna cominciare con i personaggi principali e poi le azioni.

Ru Bhumibhol, classe 1928, al trono dal 1946. Il sovrano è il regnante più ricco del mondo, secondo Forbes, con una fortuna di 35 miliardi di dollari, per decenni lui e la sua corte sono stati l'ago della bilancia della politica thailandese ma lo sono stati in maniera defilata rispetto a una partecipazione politica diretta. In altre parole per decenni, in ultima istanza, ha tirato le fila della politica thailandese, attraverso la sua corte guardando passare decine di primi ministri, capi di coalizioni governo molto fragili e raccogliticce, e ben 18 colpi di stato. Il potere del re è controllato dalla costituzione, ma la corona è anche protetta da una legge molto severa sulla “lesa maestà”, che tutela il re in sostanza da ogni critica.

L’equilibrio politico intorno al re si rompe nel 2005 quando Thaksin Shinawatra, per la prima volta nella storia del Siam, ha vinto un secondo mandato elettorale e per di più a maggioranza assoluta. In queste condizioni Thaksin poteva fare a meno del re.

Thaksin Shinawatra, classe 1949. Ex colonnello della polizia, ha lasciato la divisa e si è messo in affari, prima nei computer e poi nella telefonia mobile. A metà degli anni ’90 aveva una fortuna di circa 4 miliardi di dollari ed era padrone della maggiore rete telefonica del Sudest asiatico. Ha però ambizioni politiche e dopo la crisi finanziaria del 1997 fonda il partito “Thai rak Thai” (Thailandesi per la Thailandia) che vince le elezioni del 2001 e del 2005. Per la prima volta attua una serie di politiche a favore della maggioranza rurale del paese: nasce una piccola borghesia dei villaggi che gli rimane fedele. Thaksin però decide anche di tagliare linee di credito a grandi aziende malridotte per la crisi del 1997: la grande borghesia di Bangkok e la gente che sta loro attorno gli diventa ostile.

Thaksin è accerchiato da accuse di corruzione e conflitto di interessi. Dopo la vittoria del 2005 vende la maggioranza delle azioni della sua società telefonica, Shin corp., all’azienda singaporeana Tamasek. Per non pagare tasse effettua la vendita attraverso società all’estero. Questa vendita e le mancate tasse danno origine di una serie di proteste di “camicie gialle”, persone che indossano quel colore in rispetto al re. Sono ultra-monarchici che accusano Thaksin di corruzione (perché non ha pagato le tasse), di tradimento (perché ha venduta la sua azienda a Singapore) e di “lesa maestà”, perché irrispettoso con il sovrano. I gialli chiedono le dimissioni di Thaksin e il ritorno alle urne. Thaksin scioglie le camere va alle elezioni e vince di nuovo. I gialli a questo punto riprendono le dimostrazioni e chiedono semplicemente le dimissioni di Thaksin, che
non recede.

Nel settembre del 2006 i militari organizzano un colpo di stato, il primo dopo 15 anni, durante un viaggio a New York di Thaksin. Thaksin rimane all’estero. I militari fanno una riforma costituzionale, sciolgono il partito Thai rak Thai e bandiscono dalle elezioni oltre cento massimi dirigenti del partito. I due miliardi di dollari della vendita della Shin corp sono congelati. Quindi a dicembre del 2007 indicono nuove elezioni. Fedeli di Thaksin organizzano rapidamente un nuovo partito e vincono le elezioni contro il partito democratico, ben visto dalla corte.

Nel 2008 riprendono le dimostrazioni dei gialli e si aprono dei casi giudiziari contro il premier in carica che viene costretto alle dimissioni. I filo thaksiniani ne nominano un altro ma anche questo subisce lo stesso destino. Intanto Thaksin ritorna in Thailandia, viene però presto chiamato in giudizio per corruzione, ma prima della condanna, ritorna all’estero. La tensione sale, fin quando, alla fine del 2008, alcuni thaksiniani si alleano ai democratici e va al potere il premier Abhisit.

Due questioni rimangono però aperte, la minore, cosa fare della fortuna di Thaksin congelata, e poi una maggiore, come gestire la successione al trono. La corte infatti non vorrebbe come successore il principe ereditario Maha Vajiralonkorn, e preferirebbe invece una delle principesse. Il principe ha infatti una fama pessima di debosciato inaffidabile, mentre le principesse sono virtuose. Ma per cambiare la linea di successione bisogna cambiare la costituzione, cosa non semplicissima. Inoltre Maha è amico di Thaksin. La morte del re potrebbe significare quindi non solo il ritorno di Thaksin ma anche la fine di tanti cortigiani che per anni hanno lavorato per cambiare la legge di successione al trono.

Dall’esilio però Thaksin organizza le camicie rosse, la risposta di movimento alle camicie gialle. Le camicie rosse, guidate da un ex generale, Khattiya, chiedono il ritorno alle urne e elezioni. Le camicie rosse fanno paura al governo composte da contadini militanti delle campagne del bellicoso Nordest, e per il loro leader. Khattiya è il generale con più esperienza di guerra dell’esercito Thai, ufficiale con la Cia degli insorti anti comunisti Hmong durante la guerra del Vietnam. Inoltre la richiesta di nuove elezioni è difficile da rinviare in eterno, e cambiamenti costituzionali, per la successione o per elezioni, sono complicati da portare avanti con una crescente protesta di piazza.

Alla fine del 2009 il governo decide di “punire” Thaksin intentando una causa di confisca della sua fortuna come compensazione per l’accusa di corruzione. Il 26 febbraio del 2010 arriva la condanna: 1,4 miliardi circa sono confiscati, ma anche il resto perde di valore poiché le azioni della Shin corp crollano. Da quel punto in poi le proteste dei rossi si intensificano. In qualche modo Thaksin crede di non avere più nulla da perdere, e suoi luogotenenti pensano di dovere agire prima di essere completamente schiacciati dal governo. Incombe ancora una minaccia infatti: a settembre devono essere rinnovati i vertici militari, il governo che li rinnoverà, al di là del risultato delle elezioni, sarà il vero padrone del paese.

I rossi a marzo intensificano le dimostrazioni chiedendo di andare subito alle urne, il governo resiste ma ad aprile risponde schierando l’esercito. L’esercito in effetti non ha voglia di reprimere le proteste. Sa che scorrerebbe del sangue e i generali sarebbero presto sacrificati dal governo che vorrebbe rifarsi una verginità con ufficiali “innocenti”. Manca poi una fiducia ampia nel sistema. Il re ha 82 anni, è in ospedale da settembre del 2009, potrebbe morire fra poco, tra sei mesi o un anno, ma di certo non durerà moltissimo, del principe si sa, quindi i generali attuali non vogliono sacrificarsi per una corte il cui equilibrio potrebbe presto mutare. D’altro canto proprio la prospettiva della successione mette urgenza agli anti Thaksin: devono eliminare rapidamente i rossi, consolidare la loro guida sull’esercito come premesse poi per eliminare il principe ereditario e sostituirlo con una principessa.

L’esercito si prepara a reprimere e l’8 aprile c’è un primo avvitamento dello scontro. Qualcuno spara granate contro la folla, ci sono decine di morti e 800 feriti, ma il sangue non spaventa i rossi i quali anzi si fanno più determinati, guidati da Khattiya che promette di resistere e sostiene anzi di potere sconfiggere i soldati mandati contro di lui con tattiche di guerriglia urbana.

Dopo la prima prova di forza fallita la situazione traccheggia per oltre un mese con tentativi di colloqui tra rossi e governo e nuovi scontri di piazza, allerte di repressioni ma senza confronti violentissimi come l’8 aprile. Il 12 maggio però un cecchino spara Khattiya alla testa mentre sta parlando con dei giornalisti. Khahttiya morirà poi il 16 senza riprendere conoscenza. Per molti dei rossi significa che non ci può essere più fiducia perché il governo assassina i suoi capi mentre colloqui sono in corso. Abhisit pensa che senza Khattiya la resistenza dei rossi si scioglierà, ma non è così. La situazione però continua a essere confusa perché il 16 maggio Abhisit proclama la legge marziale in alcune parti di Bangkok ma subito il capo dell’esercito generale Paochinda afferma che non c’è bisogno di legge marziale e quindi non la applica.

Le prospettive di evoluzione sono confusissime ma di massima sono le seguenti. Se il governo si “arrende”, richiama l’esercito e proclama subito le elezioni i thaksiniani vincono a grande maggioranza, il potere della corte viene drasticamente ridotto, il principe ha assicurato il suo futuro al trono e di fatto la forma di governo della Thailandia cambierebbe in maniera radicale. Se il governo cerca la soluzione di forza e non si arrende i rossi sono pronti alla guerriglia, il Nord est potrebbe spaccarsi e molti soldati e ufficiali, originari di quella zona, potrebbero disertare. Il paese andrebbe alla guerra civile. Soluzioni intermedie sono possibili, ma tali possibilità si assottigliano con il passare dei giorni perché il governo pensa che se si arrende ha tutto da perdere, mentre i rossi, dopo l’assassinio di Khattiya, pensano che se cedono loro, saranno fatti fuori ad uno ad uno. Si tratterebbe di trovare un’alchimia che salvi qualcuno, ma tale alchimia è difficilissima da trovare.

Le prospettive sono gravi per la regione. La Thailandia era il paese più ricco e democratico del sudest asiatico, se democrazia e benessere saltano qui è possibile che altri paesi, meno stabili e con una tradizione democratica più fragile, possano essere tentati a seguirne l’esempio. Ciò comporterebbe una involuzione politica ed economica in tutta la regione.

Per la Birmania, governata dai generali, sarebbe una benedizione: sarebbero stati dei precursori non un’eccezione nella regione. Per l’America e l’occidente, ansiosi da 20 anni di esportare diritti umani in ogni angolo del pianeta, sarebbe una sconfitta di proporzioni incalcolabili. Avrebbero perso la democrazia e il benessere economico in un paese dove democrazia e benessere sarebbero stati difendibili, la Thailandia, e invece hanno tentato di esportare la democrazia sulla punta dei fucili in Iraq o Afghanistan, con risultati meno che insoddisfacenti. Il soft power americano subirebbe un colpo dolorosissimo. Ma anche il soft power cinese, grande potenza emergente globale, non avrebbe da festeggiare. Pechino da 30 anni ha promosso una politica di stabilità politica, e la Thailandia oggi è tutto fuorché stabile, e anzi rischia di infiammare la regione diminuendo prospettive di scambi economici con la dinamo commerciale e industriale cinese.
(Limes)

Tuesday, May 11, 2010

DENTAL DIPLOMACY. (Diplomazia dentistica)

Despite the glacial political relations between Athens and Skopje, residents of northern Greece are flocking across the border to find less expensive dental care, as well as other goods and services.

The two Balkan neighbours remain at loggerheads over the name "Macedonia", but that has not stopped ordinary citizens from practicing their brand of economic diplomacy.

According to Greek dental associations, private practices have seen as much as a 50% drop in business due to "dental excursions" to Bitola, Gevgelija or Strumica.

The influence of the ongoing economic crisis is hard to gauge, though it is a growing factor. Nor is inexpensive dentistry the only draw. Many also come in search of cheaper petrol, or for recreation and entertainment.

A customs officer, speaking on condition of anonymity, told SETimes that an average of 1,000 Greek citizens pass through the Evzoni border crossing on any given weekday, with the number doubling at the weekend.

"It is the casino in Gevgelija," he said, referring to one of the many gambling establishments north of the border. He added that 500 Greek citizens, per day on average, cross the Niki border post, further west.

Georgios Xanthopoulos, president of Florina's dentist association, has practiced dentistry for 27 years. He says the phenomenon of local residents making the 24km drive to Bitola for dental care began after 2000.

"With the economic crisis in Greece, and especially with the situation in state-run dentistry here, people often sacrifice convenience for lower prices," Xanthopoulos told SETimes.

He said many residents of the prefecture of Florina are insured by the civil servant's health fund, including the Public Power Corporation's large workforce. But the fund has frozen dental care reimbursements at 1994 prices.

Although it costs around 50 euros to fill a tooth cavity, the state-run fund only pays beneficiaries 7 euros, Xanthopoulos said.

In Bitola, he noted, the same procedure costs around 15 euros.

Similarly, a fitted denture costs between 1,000 to 1,200 euros in Florina and Kilkis, but runs as low as 300 euros in Bitola. A routine root canal procedure is only reimbursed to the tune of 20 euros by the public sector health fund, whereas a Greek dentist charges a minimum of 150 euros.

Among Florina residents who are not insured by the fund, there are "few to zero" instances of medical tourism, Xanthopoulos said. Foreign physicians can't prescribe medications, treatments or further diagnostic/clinical tests that local funds will approve or reimburse.

The president of the Kilkis prefecture's dentist association, Charalambos Iakovidis, echoes his colleague's assessment. Iakovidis said he has already given three television interviews on the subject, and agrees business is definitely down because of lower prices available elsewhere.

"People are heading across the border even on foot, as well as in organised coach tours. The impact on our prefecture is 50% or more," he told SETimes.

Both dental association presidents insisted, however, that facilities are better in Greece and that Greek practitioners are more experienced.

"CE certification exists here for equipment, something that is not required in the neighbouring country because dentists are not obliged to follow EU regulations and bylaws," Xanthopoulos said.

He acknowledged, though, that the cost of living in general is dramatically lower in Bitola compared to Florina. "That's one reason that you'll even see wedding parties now being organised over there, as there are a lot of people here with relatives in the Bitola region, he said.
(SETimes.com)

Thursday, May 6, 2010

POST-WAR IS NOT POST-CONFLICT. (La fine della guerra non è la fine del conflitto)

President Mahinda Rajapakse [of Sri Lanka, ndr] claimed the victory was a success of his government’s national mission within the broader global ‘war against terrorism’ and claimed its strategy was a model other governments should follow in their fight against non-state armed groups.

As security circles and governments around the globe consider whether military action with the aim of a ‘victorious peace’, the decisive defeat of one party, might not be a better option than investing in costly and fragile peace initiatives, opponents argue that a victorious peace can only be achieved at unacceptable costs. They also seriously doubt that such a costly victory can lead to lasting, or indeed just, peace.

Sri Lanka is an exemplary case of a protracted ethno-political conflict according to Edward Azar, a prominent academic and former head of the Center for International Development and Conflict Management. Although the political representatives of the Singhalese majority grant the Tamil-speaking minority groups, the Sri Lankan Tamils, Muslims and Tamils of Indian origin, a status as “co-habiting” communities, they do not grant them the equal right to cooperate in the forming of a multi-ethnic state.

After independence in 1948, a practically unitary Singhalese state was founded, establishing Buddhism as a constitutionally privileged religion. Tamil minorities were disadvantaged in the public sphere, the educational system and the economy. They also felt threatened by major irrigation and settling projects in areas where they traditionally lived.

Challenges associated with demographics and access to power affected the Sri Lankan Tamils dramatically, particularly because of the privileged position they had held under British colonial rule. For the Singhalese, the post-colonial era represented an opportunity to finally claim their rights as the country’s majority. Singhalese and Tamil nationalism thus developed in parallel, and although initially tensions between the two parties were dealt with in parliament, lasting compromises became increasingly difficult to work out, allowing violent conflict to erupt.

In both majority and minority politics, patterns of behavior, structures and attitudes developed which continually fired the confrontation. On the Singhalese side, one of those patterns can be described as “ethnic outbidding;” a process in which the Singhalese party in opposition undermined the governing party’s attempts at ethnic reconciliation.

On the Tamil side similar patterns developed over the attractiveness of political options for their community. The core issue was whether Tamils should seek reforms within the existing political system, or strive for autonomy, federalism or even secession. In the 1970s and 80s radicalism increased, leading to the foundation of several militant Tamil organizations. The LTTE became the strongest force, mostly due to its decisiveness and the brutality with which it not only attacked the Sri Lankan military and state, but also parts of the Tamil movement that voiced differing opinions. Furthermore, they profited from secret support by the Indian government; a decision that Indian politicians would come to bitterly regret when in 1991 Premier Rajiv Gandhi was killed by an LTTE assassin.

Parallel to the policy of “ethnic outbidding,” the LTTE strategy in Tamil politics could be described as “violence outbidding.” Confronted with the overwhelming dominance of Singhalese parties, and after a series of fruitless attempts to compromise politically, a large section of the Tamil community saw no other choice than to opt for violent resistance. The LTTE went one step further and claimed to be the “sole representative of the Tamil people,” a claim for which the community later had to pay a high price.

“Ethnic outbidding” and “violence outbidding” are two sides of the same coin- both escalated the conflict. The representatives of both the majority and the minority in their fight for power acted according to a parallel rationale, giving rise to a conflict that could only lead to either mutual exhaustion or a victorious, costly peace.

Like previous failed attempts at peace, those from 2002 to 2005 ended in deep disappointment. In the 2005 presidential election, the candidate of the Sri Lanka Freedom Party (SLFP) Mahinda Rajapakse revoked the ceasefire agreement of 2002. He demanded that the LTTE abandon their claims to territorial control in large parts of the northern and eastern provinces and renegotiate the vital parameters of earlier understandings. Although Ranil Wickramsinghe, the United National Party (UNP) candidate, had promised to continue the peace process, he lost partly because of an LTTE call to boycott the elections.

The war that has been called 'Tamil Eelam War IV' began to develop in the first half of 2006 with Rajapakse’s failed attempt to convince the LTTE that the practical conditions of the peace process had changed. Instead, the LTTE supplied the government with a good pretext for a major offensive by disrupting a large irrigation project in the Eastern Province. The government, however, had already decided to continue the war until the LTTE was completely extinguished; an aim that experts in Sri Lanka and abroad had thought impossible.

The unexpected success of Rajapakse’s campaign is due to several factors, primarily divisions within the LTTE, massive increases in the military budget of the government and the increasing ruthlessness of their tactics, as well as considerable support from abroad in the shadow of the ‘war on terror.’

The victory of the Sri Lankan military, however, has come at a high price. Between 20,000 and 40,000 combatants and as many as 25,0000 civilians, mainly Tamils, lost their lives in this war, according to UN sources. The government disputes these numbers. In the last months of the war, moreover, a dramatic crisis saw the LTTE taking more than 300,000 Tamil civilians hostage as it was retreating, preventing them from fleeing while government troops bombarded the areas, including self-declared no-fire zones. Over a quarter of a million survivors were subsequently interned in camps, cut off for from international aid organizations. Some 11,000 presumed LTTE cadres were interned separately without monitoring by the International Red Cross and without access to families or legal support.

The government dismissed critical voices from abroad as typical of the double standard of western countries, which in their own fight against terrorism had resorted to drastic means as well. Demands for accountability in the face of grave human rights violations, moreover, were refused outright, sometimes with the argument that the reconciliation process within Sri Lanka would be disturbed by this. Admonitions to create a political solution now that the military solution had ended, e.g. to make the Tamils a generous offer of integration within a multi-ethnic Sri Lanka, were only accepted half-heartedly.

The government’s top priority was to extend its own claim to power based on the victory of the LTTE. In the January presidential election and the general election in April, the government succeeded in this aim. Rajapakse gained a clear majority of votes and his party and their allies came close to a two-thirds majority in parliament. The election results also seemed to have cemented the deep separation of the country: While 60 percent of the Singhalese voted for Rajapakse, 65 percent of the minorities voted for the opposition candidate, former army commander Sarath Fonseka who was subsequently arrested and detained.

After his election, Rajapakse declared that his government would continue the policy of reconciliation and development. To all questions regarding concrete plans for a political solution of the conflict, however, he simply referred to his election manifesto from January 2010, clearly rejecting a division of power on grounds of ethnicity.

The current Sri Lankan government seems convinced that the rules and actions by which they have won the war can also effectively shape the post-war society. One of the rules they act by is "Whoever is not for us, is against us." It is doubtful whether this concept will be sufficient in the long run to unify Sri Lankan society with its ethnic, religious, social and political diversity and to make the country an “Exemplary 21st Century Asian State”, as described in the president’s January manifesto.

According to most observers, the post-war situation is by no means a post-conflict situation. Quite the opposite, the wounds from the war have not healed, and the memory of it may be long lasting if there is no progress in the re-integration of the refugees and ex-combatants, or in dealing with the question of a political solution.

Tamils, after nearly three decades of civil war with a huge number of victims, still considers themselves as second-class citizens. Nevertheless, during the next few years, after all the hardship of the past, their priority will be to live a ‘normal’ life. It is most unlikely though that they will accept their secondary status in the long run, the clearest indication of which is the continued support of a (Pan)-Tamil nationalism by Tamil Nadu, the neighboring Indian state. Tamil Nadu itself is an example of how federal concessions can successfully be demanded from a central government. What form the new resistance will take and whether there will be a new militant movement is unclear, however. It depends on what personal and political alternatives young Tamil men and women will see. At present they carry the burden of the victorious peace and its victims as the main parameters of their lives.

The answer to the question of whether the victorious peace has resulted in either a successful victory against terrorism or just the prolongation of the conflict will therefore very much depend on the future of the Sri Lankan polity and its capacity to integrate the Tamil speaking communities as equal partners into the constitution and the political life of the country.
(ISN)

 
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