Monday, February 16, 2009

L'ISOLA CHE NON C'E'... PIU'. (Neverland... no more)

Con le dimissioni il 26 Gennaio del Primo Ministro Haarde, dopo mesi di manifestazioni di protesta, si chiude un capitolo della storia islandese. Non un capitolo politico, bensì un capitolo economico. In realtà infatti, per comprendere la parabola economica dell'Islanda dobbiamo considerare un arco di tempo nel quale si sono succeduti governi di diverso colore. Anzi, lo stesso governo Haarde si configurava come un governo, diremmo in altri contesti, di "grande coalizone", tra il l'Independence Party (di Haarde) ed i socialdemocratici. A fare le spese delle gravissima crisi finanziaria che ormai da parecchio tempo ha colpito l'isola è dunque stata la prima componente: il presidente della Repubblica Grímsson ha affidato ai socialdemocratici l'incarico di formare un governo di minoranza in attesa di elezioni anticipate a fine primavera. Ne è scaturito un governo presieduto da Jóhanna Sigurðardóttir (prima donna alla guida del Paese e primo Primo Ministro dichiaratamente omosessuale al mondo), in coalizione con Verdi ed estrema sinistra e con l'appoggio esterno dei centristi del Progressive Party.
Fin qui le vicende politiche. Ma valutiamo ora come un Paese ritenuto generalmente (o almeno nell'opinione comune) ricco e stabile sia sprofondato (prima di altri, s'intende ormai) in un simile abisso economico. E sì, perchè la "crisi " di cui tutti parlano (e straparlano) oggi, in Islanda era già evidente nel 2006. Chiediamoci allora: il caso islandese ci mostrava già che qualcosa "non andava"? Dovevamo (almeno) già nel 2006 guardare con sospetto all'economia Usa, alla luce di ciò che accadeva a Reykjavík? Dovevamo notare i rischi di una crescita basata sull' "aria fritta"? Giudicate voi.
In realtà, come ora è a tutti facile intuire, l'Islanda non era (ed a maggior ragione adesso, "non è") un Paese così "ricco". Il PIL nominale risultava alla vigilia dell'ultima crisi intorno
ai 20 miliardi di dollari (per meno di 320.000 abitanti, dato decisivo), ma tenendo conto del costo della vita il PIL avrebbe raggiunto appena i 12 miliardi. Le riforme degli anni '90 hanno dunque fatto crescere economicamente l'isola (+ 6% all'anno), ma su basi che, come vedremo, erano tutt'altro che solide. In altre parole, si accumulavano vulnerabilità.
Anzitutto era presente un problema di natura fiscale: un elevato rapporto deficit/PIL e persistenti disavanzi di parte corrente. In particolare risultava critico il settore esterno, con limitate esportazioni (ed un elevato indebitamento estero). Il fatto poi che la
krona fosse una valuta certamente "debole", rendeva l'isola particolarmente esposta ad attacchi speculativi. Il rischio ovviamente, come abbiamo potuto notare nelle crisi valutarie degli anni '80 e '90, era quello di un fenomeno di capital reversal all'aumentare del rischio e dell'instabilità. Essendo la krona fluttuante nel global forex market (il mercato valutario), le autorità islandesi, al fine di ottenere valuta in prestito, offrivano tassi d'interesse più che ragguardevoli, specie rispetto a UE ed a Stati Uniti. Prendeva così il via un vasto fenomeno di carry trade, una tecnica di arbitraggio valutario che consiste nel prendere a prestito vaste somme nei mercati caratterizzati da bassi tassi d'interesse (ad esempio in Svizzera) ed investirle in obbligazioni a lunga scadenza emesse da Paesi che pagano interessi elevati. Enormi flussi di capitali giungevano così da tutto il mondo in un mercato mobiliare e immobiliare da 320.000 abitanti! Col tempo si formava dunque una vera e propria "bolla speculativa" nel mercato immobiliare: si assisteva di fatto all'enorme gonfiarsi del valore degli assets detenuti dalle banche e dalle società finanziarie, con l'esponenziale aumentare del rischio di collasso e crollo dell'intero sistema finanziario al momento dello scoppio della bolla stessa. Se a tutto questo aggiungiamo come nel corso del decennio precedente il settore privato sia pesantemente ricorso al credito, chiedendo sempre più prestiti per investimenti sempre più rischiosi, allora risulta chiaro come si affacciasse anche un problema di allocazione efficiente del risparmio e, per converso, un problema di sovrafinanziamento.
Le premesse per una crisi valutario-finaziaria sul modello della crisi che nel '97-'98 aveva coinvolto le cosiddette "Tigri Asiatiche" vi erano tutte.
Ed ecco il contributo della Banca Centrale islandese: un aumento dei tassi per raffreddare l'economia... ed ecco invece (forse non si conosceva il significato della parola "globalizzazione") nuovi afflussi di capitali dall'estero! Nuovi prestiti, nuovi investimenti, nuovi consumi, nuovo surriscaldamento. Dal 2004 al 2006 le azioni della insignificante Borsa islandese erano quadruplicate. E allora ancora nuovi soldi (telematici) da UE e USA soprattutto. Le minuscole banche islandesi si trovarono in breve con debiti (anche all'estero) superiori di molte volte lo stesso PIL dell'isola. Qualsiasi garanzia di bailout da parte delle autorità islandesi, veniva di fatto meno. O più precisamente veniva meno la stessa credibilità, la stessa fiducia in una garanzia di salvataggio. Il "giocattolo" si stava inesorabilmente rompendo. In particolare bastò che un'agenzia di rating (Fitch) esprimesse dubbi sulla sostenibilità dell'indebitamento islandese per far passare il Paese da un "boom" ad una recessione e ad una depressione profonda, aggravata naturalmente dalla crisi che nel 2008 dagli Usa sta pian piano contagiando il mondo intero. E così arriviamo ai giorni nostri, dove
Reykjavík cerca e cercherà probabilmente di rimodulare anzitutto la propria posizione internazionale. Stop all'alleanza preferenziale con gli USA responsabili della nuova crisi che sta colpendo duramente (anche) l'isola. Stop al rapporto privilegiato con i tradizionali alleati scandinavi , Norvegia e Danimarca, colpevoli di aver richiesto condizioni impossibili per un prestito di 6 miliardi di dollari. Riavvicinamento alla Russia, cui è stata peraltro proposta la gestione della base aerea di Keflavic, utilizzata dalla NATO durante la Guerra Fredda. Riavvicinamento all'UE, anche se l'orizzonte dell'adesione rimane, se mai vi sarà, piuttosto distante. L'obiettivo sarebbe quello di sbarazzarsi di una una krona sempre meno brillante. Il tentativo di Ottobre di istituire un cambio fisso a 131 corone per euro è miseramente fallito. La Banca Centrale, Sedlabanki, non aveva riserve valutarie per sostenerlo. Gli operatori neppure si sono accorti dell'acquisto da parte della BC di 786 milioni di corone per 6 milioni di euro. La Sedlabanki di fatto, già in Ottobre, risultava in frantumi.
O Islanda, splendido esempio di finto capitalismo. O Islanda, ci precedi e ci mostri la via. O Islanda ci avevi illuso fosse facile guadagnare e crescere. E ora sei solo un' isola che non c'è. O meglio, un' "isola che non c'è", che ora non c'è più.
Passo e chiudo.
FRA

Thursday, February 12, 2009

UNA BANCA CENTRALE MONDIALE? (A world central bank?)

Ho come l'impressione che faremmo meglio a tenere sott'occhio nei prossimi mesi il seguente articolo tratto dal sito di Time. Il titolo reca esplicitamente un'espressione che per molti assidui frequentatori del web risulta ormai familiare: "New World Order", formula oscura e polisemica oltre che ambigua. Può essere quello descritto nell'articolo l'inizio di questo nuovo ordine? Di ordini internazionali nei secoli se ne sono succeduti tanti, ma nessuno scritto a lettere maiuscole (come nell'articolo di Time) ...



(Da TIME 05-02-2009)

"New World Order" by Justin Fox

In recent weeks, the world has been politely standing by and watching how things play out with the fiscal stimulus and latest bank-bailout plans in Washington. Yes, there's been some grumbling overseas about "buy American" provisions in the stimulus bill, but for the most part, officials elsewhere don't want to step on the toes of a new President to whom they are favorably disposed. They also don't want to endanger legislation that they hope will help jump-start the global economy.

Just wait a couple of months, though. Politicians from Beijing to Berlin to Brasília see the current crisis as the product of a messed-up global financial infrastructure dominated by the U.S., and they will soon be pushing for big changes--whether Americans like them or not.

All this will begin to gel on April 2, when the newish international organization known as the G-20--the leaders of 19 of the world's biggest national economies, plus the European Union--meets in London. An unofficial meeting has already taken place, at the World Economic Forum in Davos, Switzerland, where G-20 officials (with the conspicuous exception of those from the U.S.) made speeches, conversed in the halls and gave a sense of the direction in which the world outside the U.S. wants to head.

The global discussion of the financial crisis is strikingly different from the one in the U.S. Here there's still something of a debate over whether the mess is the result of too much government interference in the housing market or too little government regulation of financial markets. In the rest of the world, that's no debate: inadequate and inconsistent financial regulation is uniformly blamed. What's more, a consensus seems to have emerged among the world's finance ministers and central-bank bosses that the chief underlying cause of the crisis was an unbalanced and out-of-control system of global capital flows in which some big-spender countries (namely the U.S.) ran up huge debts while big savers (China and India, for example) hoarded surpluses.

On the regulatory front, the path to a new global approach is pretty clear. Last spring the leaders of the G-7, a club of wealthy nations, agreed to create a "college of supervisors" to more closely coordinate regulation of multinational banks. The Group of Thirty, an influential organization of current and former central bankers and financial regulators, recommended in January that "systematically significant" financial institutions (those that are too big to fail) be identified in advance and subjected to higher capital requirements and tougher regulation.

Yet regulators around the world were already jointly setting bank-capital standards before the current crisis hit. A lot of good that did us. So there is also much talk about the need for a new architecture--"a new Bretton Woods" was a phrase that echoed around Davos--to rein in global financial flows.

Bretton Woods is the mountain resort in New Hampshire where in 1944 the Allied nations met--with the U.S. calling almost all the shots--to plan a postwar financial system. The Bretton Woods creations included the International Monetary Fund (IMF), the World Bank and a quarter-century of fixed exchange rates built around a U.S. dollar that was linked to gold. The fixed exchange rates and gold standard unraveled in the 1970s, and ever since we've had a system in which the IMF occasionally steps in to help countries in currency crises (usually imposing harsh terms in the process) but exercises no real control over the global financial system.

After the emerging-market currency collapses of the late 1990s, in which IMF aid wasn't much help, the lesson that emerging economies such as China and India took was that they needed to build up gigantic reserves of U.S. dollars to protect their currencies. To build those reserves, they ran big trade surpluses, which were in turn enabled mainly by record trade deficits in the U.S., which were in turn enabled by massive borrowing from around the world. It was an extremely unbalanced financial ballet, and it has now come crashing to the ground.

In the view of many outside the U.S. (and some within), the only way to limit such excesses is through a bigger, more powerful IMF that can act as a central bank to the world--and knock heads when needed. While everybody agrees that this new IMF needs to be less dominated by the U.S. and Western Europe, things get controversial as soon as you go past voting rights. Should capital flows be restricted? Should there be limits on trade deficits and surpluses? Should the IMF be able to order around even the U.S.? If the answer to any of these questions is yes, global capitalism will have entered a new and dramatically less freewheeling era.

 
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