Arresasi l’ultima guarnigione tedesca (1915) e finita la guerra in Europa (1918), a seguito del trattato di Versailles, il territorio divenne mandato della neonata Società delle Nazioni amministrato dal Sudafrica. La decisione venne firmata a Ginevra il 17 Dicembre 1920 ed entrò in vigore il primo Gennaio 1921, contemporaneamente alla sospensione della legge marziale. Era un mandato di tipo C, unico caso: secondo i termini vi doveva essere un’amministrazione diretta sudafricana intesa come “sacred trust of civilisation”. Era chiaro però come l’intenzione di Botha e Smuts, presenti a Parigi, fosse quella di una completa incorporazione della Namibia in quella che dal Maggio 1910 era diventata l’Unione Sudafricana, un dominion avente statuto autonomo. Si profilava così una nuova esperienza di colonizzazione per il territorio namibiano. Il “material and moral well-being”, così come il “social progress” per gli indigeni ovviamente non si raggiunse. Anzi, anche questa fu un’esperienza di totale asservimento alla minoranza bianca.
boeri sovvenzionati da finanziamenti pubblici. Si continuò e si estese l’espropriazione delle terre già avviata dai coloni precedenti. In quattro anno il numero delle “Analizziamo allora, attraverso gli eventi principali la natura del sistema di colonial rule sudafricano. Anzitutto dobbiamo considerare il Blue Book del governo sudafricano, un libro di colore nel quale si accusavano i Tedeschi dei misfatti compiuti a danno della popolazione della Namibia, nonché della loro estrema crudeltà. I Sudafricani si presentavano dunque come liberatori. Il Governatore Generale, Lord Buxton, nel 1915 aveva addirittura promesso agli Herero grandi possedimenti di terra e soprattutto la libertà. Le cose andarono però diversamente. Obbiettivo dell’occupazione sudafricana era in primo luogo lo sfruttamento della risorse umane e naturali della regione. Per prima cosa seimila dei quindicimila Tedeschi presenti vennero rimpatriati, per fare posto a farmerswhite farms” raddoppiò. L’altra caratteristica fondamentale, che riguardava e aveva riguardato tutte le colonie d’insediamento di settlers, fu la divisione del territorio in aree per coloni europei e riserve per gli indigeni, continuando dunque e sviluppando una politica che era stata propria anche dei Tedeschi precedentemente. Questa alienazione, che con il proclama del 1923 aveva “concesso” 2 milioni di ettari su un totale di 57 alla popolazione africana che rappresentava il 90 percento, veniva vissuta dalle comunità indigene come qualcosa di irreparabile, non solo per il significato tradizionale che aveva la terra nei rapporti di parentela, ma anche a causa del valore commerciale che essa veniva sempre più acquistando. Ovviamente non tutte le parti di una stessa regione erano colpite allo steso modo, ma solo quelle dotate di suoli fertili, buona accessibilità e ricche risorse minerarie: Lüderitz e la zona circostante con Kolmanskop, la Sperrgebiet, possono esserne buoni esempi. Il persistere di tale situazione avrebbe perfezionato lo strutturarsi di sistemi coloniali di discriminazione fondata su gerarchie razziali e razziste. In sostanza avrebbe permesso l’adozione e l’estensione con sorprendente facilità del sistema di apartheid. Una ritardata strategia di valorizzazione di forme ispirate all’indirect rule, voluta per rinsaldare sotto il profilo concettuale e politico la nozione di gerarchia etnico-razziale. Laddove esisteva una comunità europea di rilievo, il sistema delle native administration (con tutti i suoi pro ed i suoi contro) non venne messo in atto. Una forte volontà era presente anche nel far sì che le riserve (17 e per nulla omogenee sotto il profilo etnico) e le regioni settentrionali nelle quali gli Africani (duecento mila) erano stati confinati, non fossero per nulla sufficienti al sostentamento di quelle popolazioni, essendo per lo più aree desertiche. Queste dovevano diventare bacini di forza lavoro per le farms europee, per le miniere di rame di Tsumeb e per le regioni diamantifere. Non riuscendo a sopravvivere nelle riserve, i lavoratori giovani e maschi, si sarebbero spostati nelle aree “bianche” per lavorare: i colonizzatori evitavano così di dover pagare salari anche per la famiglia del lavoratore, così come evitavano le spese per la previdenza sociale, la casa e l’assistenza sanitaria. La forza lavoro nera si poteva dividere in tre gruppi: i pochi Africani abilitati a vivere e poi a lavorare nelle città e nelle fattorie bianche, ai quali veniva dato anche un minimo di istruzione; i lavoratori migranti provenienti dalle riserve nel centro e sud del paese, occupati per lo più nelle fattorie; i lavoratori con contratto provenienti dal nord, occupati nelle miniere, nelle ferrovie e nella pesca (Walvis Bay). Come si può notare, grazie anche ad esercito e polizia, queste differenziazioni prima etniche, poi sociali, rappresentavano la prova del successo della strategia, anche sudafricana, del divide et impera. Il tutto, come si è detto, senza applicazione di indirect rule: come dire, dispiegare solamente le conseguenze distorte e negative di tale sistema. Intanto il regime, nello stabilire il controllo in tutto il territorio si era scontrato con numerose popolazioni: per esempio i Bondelswarts Nama, popolo di cacciatori per i quali il cane era un necessario strumento di lavoro, capirono subito come la nuova colonizzazione non fosse certo meno pesante, quando nel 1922, dopo che si erano opposti ad una tassa sui loro fedeli compagni, Smuts inviò esercito e bombardieri e le vittime furono soprattutto donne e bambini. Una dimostrazione della brutalità del governo sudafricano, pronto ad usare i mezzi più drastici per sedare una ribellione di scarsa importanza. Stessa sorte era toccata ai Basters (Oorlams), la cui ribellione per ottenere un governo autonomo, venne stroncata nel sangue.
La Seconda Guerra Mondiale segna una decisa evoluzione nei rapporti tra il Sudafrica e la sua colonia. L’Unione Sudafricana, divisa tra neutralità, sostenuta dagli ultranazionalisti e antibritannci seguaci di Herzog, e intervento a fianco della Gran Bretagna, scelse l’impegno in guerra. Il Capo divenne un’essenziale base navale. Con abilità diplomatica il governo avrebbe saputo trarre grossi vantaggi dall’appoggio agli Alleati: la non interferenza nelle questioni interne da parte di Inghilterra e Potenze occidentali anzitutto. Le elezioni del 1948 nell’Unione, portarono al governo un Partito nazionalista “purificato” dalla sua componente più aperta ad un’alleanza con l’altro grande partito bianco, questo filobritannico, il South African Party. Il Partito nazionalista era sostenuto dai piccoli imprenditori bianchi afrikaner del Transvaal e dell’Orange, ed era portatore di una strategia di contenimento definitivo della popolazione africana: l’apartheid, una legislazione che discriminava a seconda dell’appartenenza razziale sia per i diritti civili che soprattutto per quelli economici e politici. Assicurata la non-ingerenza occidentale, vi era il via libera per questo tipo di politica. In più, avendo creato nella colonia quell’humus sociale necessario alla sua applicazione, l’apartheid avrebbe potuto essere esteso facilmente alla Namibia: ciò che sarebbe avvenuto nel 1962.
Prima di procedere con l’analisi del periodo caratterizzato dall’applicazione dell’apartheid, è bene guardare al nuovo assetto giuridico della Namibia. L’articolo 73 della Carta delle neonate Nazioni Unite, assumeva la responsabilità per i mandati della defunta Società delle Nazioni e, prendendoli sotto la sua tutela, si impegnava a garantirne il progresso politico e sociale. L’Unione Sudafricana colse l’occasione per provare ad incorporare definitivamente la Namibia, facendo leva sul fatto che tale territorio, al contrario delle altre ex-colonie tedesche poste ora sotto trusteeship delle Nazione Unite, fosse molto prossimo al territorio sudafricano, costituendo una naturale unica area geografica. Il 14 Dicembre 1946 l’Assemblea Generale rigettò la richiesta con 37 voti contrari, 0 favorevoli e 9 astensioni. Tuttavia l’organo esprimeva anche la convinzione che i Namibiani non avessero ancora raggiunto un grado di sviluppo politico tale da poter essere ascoltati dall’istituzione internazionale su questioni importanti come l’incorporazione. Sta di fatto che il Sudafrica rifiutò di rinunciare al proprio mandato e di accettare che esso fosse sostituito da un accordo di fiducia delle Nazioni Unite, accordo che avrebbe previsto l’applicazione di meccanismi di controllo internazionali dell’operato sudafricano, in quello che era diventata da tempo semplicemente l’Africa del Sud-Ovest. Sebbene la cosa non fosse mai stata ufficializzata, il governo sudafricano iniziò ad amministrare tale territorio come una “quinta provincia sudafricana”: esponenti della minoranza bianca dell’Africa del Sud-Ovest ebbero addirittura accesso al Parlamento dell’Unione.
Si è detto essere il 1962 l’anno nel quale il sistema e la legislazione dell’apartheid vennero applicati in toto anche al territorio namibiano: tutto l’apparato venne trasferito, compresa ovviamente la famosa Native Land Law del 1913, secondo la quale solo il 13 percento del territorio avrebbe potuto essere riserva tribale dove le popolazioni indigene avrebbero potuto possedere terra e coltivare autonomamente, legge dalla quale prese concretamente il via la politica segregazionista in Sudafrica. Quelle che si seguivano erano le raccomandazioni di una commissione ad hoc, la Odendaal Commission, che proponeva un “piano di sviluppo per la Namibia” ed in particolare per la “popolazione non-bianca”. Da quel momento fino all’indipendenza, l’Odendaal Plan, un sistema ancora più completo d’integrazione al Sudafrica, costituì la base della politica delle autorità sudafricane nei confronti della Namibia. Il Piano, evoluzione del segregazionismo, prevedeva un consolidamento tribale per la creazione di “homelands etniche”. Le riserve si sarebbero dunque trasformate in bantustan, patrie sulle quali fondare istituzioni di governo locale per mezzo di Consigli tribali, negando così alla popolazione africana qualsiasi accesso ad istituzioni rappresentative elette. Non si teneva ovviamente conto della profonda detribalizzazione di gran parte della popolazione (che in larga parte viveva in aree urbane), né della destrutturazione irreversibile delle aree rurali, causata da guerre, repressioni, requisizioni. Vennero costituite sei homelands, aumentando il territorio delle riserve da 22 a 32,7 milioni di ettari, sfidando le istituzioni internazionali ed in primo luogo le Nazioni Unite, alle quali il Sudafrica, come si è detto, non riconosceva diritti di tutela sul territorio. Le “patrie tribali” erano situate in terre aride: l’87 percento della nuova terra dei Damara, era una regione desertica o semidesertica, mentre i 30 percento di quella degli Herero non era adatta ad attività agricole, mancando l’acqua. Emergevano con ancora maggiore chiarezza gli obiettivi e la natura della politica dei colonizzatori: far sì che i neri della Namibia divenissero contadini diseredati e lavoratori migranti, negando loro ogni diritto civile e politico al di fuori delle homelands, promuovendo il tribalismo ed in questo modo rendendo possibile la divisione ed il controllo dei crescenti movimenti di liberazione nazionale. Le due formazioni politiche a carattere nazionalista principali erano, nel dopoguerra, l’Ovambo People’s Congress fondato da Toivo (avente la base sociale tra i lavoratori migranti al Capo), e la South West African National Union (SWANU), con base nell’Hereroland. Alleatisi i due movimenti diedero impulso ad una campagna internazionale per chiedere che fosse riconosciuto alla Namibia lo status di territorio sotto tutela delle Nazioni Unite, così come per tutti gli ex mandati della Società delle Nazioni. Questo contribuì a smuovere la situazione internazionale: nel 1966 Etiopia e Liberia protestarono in merito presso la Corte Internazionale di Giustizia e l’Assemblea Generale dell’ONU revocò al Sudafrica il mandato per l’amministrazione della zona (sebbene questo non sarebbe mai stato accettato dall’Unione) e nel 1968, ribattezzò formalmente “Namibia”, l’Africa del Sud-Ovest. Il modello di protesta dei due suddetti movimenti, si ispirava alle campagne di boicottaggio dell’African National Congress in Sudafrica: tra le proteste più importanti, quella contro la distruzione della old location di Windhoek, la più antica area di insediamento indigeno urbano, sede di vita culturale, sociale, politica. Queste azioni comuni e queste prese di coscienza collettive, crearono l’humus necessario per l’unione delle due formazioni politiche nella South West African People’s Organization (SWAPO), che diventerà il centro motore dell’opposizione al controllo sudafricano e poi della lotta di liberazione. Difficilmente il partito riuscì a integrare le “diverse anime”, e ancora più difficile fu l’integrazione con gli altri movimenti indipendentisti, dopo che l’Assemblea Generale riconobbe la SWAPO come “solo ed autentico rappresentante della Namibia”. Questo era un riconoscimento voluto dai Paesi africani della Linea del Fronte (Tanzania, Zambia, Angola, Mozambico, Botswana e dal 1980 Zimbabwe), paesi della regione impegnati a sostenere la lotta ai regimi di minoranza bianchi, convinti che fosse il partito unico lo strumento più efficace a combattere il potere coloniale. In ogni caso l’azione della SWAPO si tradusse per lo più in un’azione di guerriglia, con ripetute incursioni lanciate dalle sue basi in Zambia attraverso la Caprivi Strip nonché dalle sue basi in Angola. Il governo angolano infatti, quando il Paese divenne indipendente nel 1975, era della medesima ispirazione politica della SWAPO, tendenzialmente marxista.
Gli anni Settanta iniziarono con la dichiarazione della Corte Internazionale di Giustizia secondo la quale l’occupazione sudafricana della Namibia fosse illegale, e con le Nazioni Unite che si ritrovarono a chiedere a tutti gli Stati membri di rifiutarsi di riconoscere in alcun modo l’autorità sudafricana sulla zona. Nel 1977 il cosiddetto Gruppo di Contatto Occidentale (Canada, Usa, Francia, Germania Ovest, Regno Unito), diede vita ad una iniziativa diplomatica volta ad ottenere l’indipendenza della Namibia attraverso un processo accettabile per la comunità internazionale: si arrivò così alla Risoluzione 435 (1978) del Consiglio di Sicurezza, che diede il via a negoziati tra la SWAPO, le Nazioni Unite, il Gruppo di Contatto Occidentale, la Linea del Fronte e l’Unione Sudafricana. In questo contesto vennero richieste elezioni libere in Namibia sotto la supervisione ONU. Sulla carta il Sudafrica acconsentì a cooperare per raggiungere gli obiettivi della Risoluzione, ma sul campo oltre a porre in essere una vera guerra, prima invadendo l’Angola e poi appoggiando la guerriglia Renamo contro il governo mozambicano (l’interesse era infatti quello di difendere il regime, il più lontano possibile dalle “storiche” quattro regioni dell’Unione), organizzò illegalmente delle elezioni per dare una soluzione che mantenesse la Namibia completamente nell’orbita sudafricana. Questa soluzione trovava sia l’opposizione dell’ONU, sia quella dell’Organizzazione dell’Unita Africana. Le elezioni si svolsero nel 1978 e contrapposero movimenti nazionalisti in esilio e la Turnhalle Alliance, un’alleanza che si era formata dopo i Turnhalle talks del 1974, meeting costituzionali tenutisi nel ginnasio di Turnhalle e che non rappresentavano altro che una mera facciata per imporre una volta di più la volontà bianca, dando l’illusione di accogliere le istanze dei movimenti di liberazione nazionale. Questo soprattutto perché i meeting erano organizzati sullo schema dell’Odendaal Plan: i partiti politici erano esclusi ed i rappresentanti erano designati su base etnica. Le elezioni furono boicottate dalla SWAPO e da altri partiti namibiani: il Sudafrica amministrò dal quel momento la Namibia con la coalizione (Turnhalle) che aveva vinto le elezioni farsa.
La strategia sudafricana di legittimazione di una soluzione interna (che si identificherà con la figura del presidente Botha, propenso ad offrire alleanze anche economiche ai Paesi vicini, in cambio di un riconoscimento del regime) verrà sconfitta da una serie di eventi nella seconda metà degli anni Ottanta: la sconfitta dell’esercito sudafricano nella battaglia di Cuito Cuanavale contro l’esercito angolano, la crisi economica e sociale interna al Sudafrica (la crescita del proletariato nero rendeva sempre più difficili politiche di segregazione), la politica di Gorbaciov favorevole alla collaborazione per risolvere conflitti periferici, la diplomazia americana, ambivalente a causa del sostegno ai Sudafricani in Angola, ma alla fine decisiva nel promuovere negoziati tra le parti. Decisiva fu poi l’opera dei sette Commissari dell’ONU che si susseguirono dal 1966 al 1988: in particolare il lavoro di Martti Ahtisaari nell’82, fu determinante nel creare il quadro per la nuova costituzione democratica. L’inizio della transizione fu tormentato per scontri tra il braccio armato della SWAPO, il PLAN e contingenti sudafricani. Il periodo successivo fu invece tranquillo: amnistia ai prigionieri politici, abolizione apartheid, ritiro contingenti sudafricani, ritorno dei profughi. Le elezioni si tennero praticamente in contemporanea con la caduta del Muro di Berlino e l’affluenza fu del 98 percento. I rappresentanti ONU le certificarono come libere ed eque. La SWAPO ottenne il 57 percento, non raggiungendo la soglia dei 2/3 che avrebbe consentito di modificare l’apparato costituzionale. L’Assemblea Costituente adottò i principi costituzionali del 1982. Il 21 Marzo 1990 la Namibia fu proclamata indipendente e Sam Nujome, leader della SWAPO ne divenne il primo presidente. Il primo Marzo 1994 anche Walvis Bay, che era rimasta possesso sudafricano, fu ceduta alla Namibia insieme ad un gruppo di isole lungo la costa.
FRA
2 comments:
necessita di verificare:)
molto intiresno, grazie
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