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In realtà, come ora è a tutti facile intuire, l'Islanda non era (ed a maggior ragione adesso, "non è") un Paese così "ricco". Il PIL nominale risultava alla vigilia dell'ultima crisi intorno ai 20 miliardi di dollari (per meno di 320.000 abitanti, dato decisivo), ma tenendo conto del costo della vita il PIL avrebbe raggiunto appena i 12 miliardi. Le riforme degli anni '90 hanno dunque fatto crescere economicamente l'isola (+ 6% all'anno), ma su basi che, come vedremo, erano tutt'altro che solide. In altre parole, si accumulavano vulnerabilità.
Anzitutto era presente un problema di natura fiscale: un elevato rapporto deficit/PIL e persistenti disavanzi di parte corrente. In particolare risultava critico il settore esterno, con limitate esportazioni (ed un elevato indebitamento estero). Il fatto poi che la
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Le premesse per una crisi valutario-finaziaria sul modello della crisi che nel '97-'98 aveva coinvolto le cosiddette "Tigri Asiatiche" vi erano tutte.
Ed ecco il contributo della Banca Centrale islandese: un aumento dei tassi per raffreddare l'economia... ed ecco invece (forse non si conosceva il significato della parola "globalizzazione") nuovi afflussi di capitali dall'estero! Nuovi prestiti, nuovi investimenti, nuovi consumi, nuovo surriscaldamento. Dal 2004 al 2006 le azioni della insignificante Borsa islandese erano quadruplicate. E allora ancora nuovi soldi (telematici) da UE e USA soprattutto. Le minuscole banche islandesi si trovarono in breve con debiti (anche all'estero) superiori di molte volte lo stesso PIL dell'isola. Qualsiasi garanzia di bailout da parte delle autorità islandesi, veniva di fatto meno. O più precisamente veniva meno la stessa credibilità, la stessa fiducia in una garanzia di salvataggio. Il "giocattolo" si stava inesorabilmente rompendo. In particolare bastò che un'agenzia di rating (Fitch) esprimesse dubbi sulla sostenibilità dell'indebitamento islandese per far passare il Paese da un "boom" ad una recessione e ad una depressione profonda, aggravata naturalmente dalla crisi che nel 2008 dagli Usa sta pian piano contagiando il mondo intero. E così arriviamo ai giorni nostri, dove Reykjavík cerca e cercherà probabilmente di rimodulare anzitutto la propria posizione internazionale. Stop all'alleanza preferenziale con gli USA responsabili della nuova crisi che sta colpendo duramente (anche) l'isola. Stop al rapporto privilegiato con i tradizionali alleati scandinavi , Norvegia e Danimarca, colpevoli di aver richiesto condizioni impossibili per un prestito di 6 miliardi di dollari. Riavvicinamento alla Russia, cui è stata peraltro proposta la gestione della base aerea di Keflavic, utilizzata dalla NATO durante la Guerra Fredda. Riavvicinamento all'UE, anche se l'orizzonte dell'adesione rimane, se mai vi sarà, piuttosto distante. L'obiettivo sarebbe quello di sbarazzarsi di una una krona sempre meno brillante. Il tentativo di Ottobre di istituire un cambio fisso a 131 corone per euro è miseramente fallito. La Banca Centrale, Sedlabanki, non aveva riserve valutarie per sostenerlo. Gli operatori neppure si sono accorti dell'acquisto da parte della BC di 786 milioni di corone per 6 milioni di euro. La Sedlabanki di fatto, già in Ottobre, risultava in frantumi.
O Islanda, splendido esempio di finto capitalismo. O Islanda, ci precedi e ci mostri la via. O Islanda ci avevi illuso fosse facile guadagnare e crescere. E ora sei solo un' isola che non c'è. O meglio, un' "isola che non c'è", che ora non c'è più.
Passo e chiudo.
FRA