Con le dimissioni il 26 Gennaio del Primo Ministro Haarde, dopo mesi di manifestazioni di protesta, si chiude un capitolo della storia islandese. Non un capitolo politico, bensì un capitolo economico. In realtà infatti, per comprendere la parabola economica dell'Islanda dobbiamo considerare un arco di tempo nel quale si sono succeduti governi di diverso colore. Anzi, lo stesso governo Haarde si configurava come un governo, diremmo in altri contesti, di "grande coalizone", tra il l'Independence Party (di Haarde) ed i socialdemocratici. A fare le spese delle gravissima crisi finanziaria che ormai da parecchio tempo ha colpito l'isola è dunque stata la prima componente: il presidente della Repubblica Grímsson ha affidato ai socialdemocratici l'incarico di formare un governo di minoranza in attesa di elezioni anticipate a fine primavera. Ne è scaturito un governo presieduto da Jóhanna Sigurðardóttir (prima donna alla guida del Paese e primo Primo Ministro dichiaratamente omosessuale al mondo), in coalizione con Verdi ed estrema sinistra e con l'appoggio esterno dei centristi del Progressive Party.
Fin qui le vicende politiche. Ma valutiamo ora come un Paese ritenuto generalmente (o almeno nell'opinione comune) ricco e stabile sia sprofondato (prima di altri, s'intende ormai) in un simile abisso economico. E sì, perchè la "crisi " di cui tutti parlano (e straparlano) oggi, in Islanda era già evidente nel 2006. Chiediamoci allora: il caso islandese ci mostrava già che qualcosa "non andava"? Dovevamo (almeno) già nel 2006 guardare con sospetto all'economia Usa, alla luce di ciò che accadeva a Reykjavík? Dovevamo notare i rischi di una crescita basata sull' "aria fritta"? Giudicate voi.
In realtà, come ora è a tutti facile intuire, l'Islanda non era (ed a maggior ragione adesso, "non è") un Paese così "ricco". Il PIL nominale risultava alla vigilia dell'ultima crisi intorno ai 20 miliardi di dollari (per meno di 320.000 abitanti, dato decisivo), ma tenendo conto del costo della vita il PIL avrebbe raggiunto appena i 12 miliardi. Le riforme degli anni '90 hanno dunque fatto crescere economicamente l'isola (+ 6% all'anno), ma su basi che, come vedremo, erano tutt'altro che solide. In altre parole, si accumulavano vulnerabilità.
Anzitutto era presente un problema di natura fiscale: un elevato rapporto deficit/PIL e persistenti disavanzi di parte corrente. In particolare risultava critico il settore esterno, con limitate esportazioni (ed un elevato indebitamento estero). Il fatto poi che la krona fosse una valuta certamente "debole", rendeva l'isola particolarmente esposta ad attacchi speculativi. Il rischio ovviamente, come abbiamo potuto notare nelle crisi valutarie degli anni '80 e '90, era quello di un fenomeno di capital reversal all'aumentare del rischio e dell'instabilità. Essendo la krona fluttuante nel global forex market (il mercato valutario), le autorità islandesi, al fine di ottenere valuta in prestito, offrivano tassi d'interesse più che ragguardevoli, specie rispetto a UE ed a Stati Uniti. Prendeva così il via un vasto fenomeno di carry trade, una tecnica di arbitraggio valutario che consiste nel prendere a prestito vaste somme nei mercati caratterizzati da bassi tassi d'interesse (ad esempio in Svizzera) ed investirle in obbligazioni a lunga scadenza emesse da Paesi che pagano interessi elevati. Enormi flussi di capitali giungevano così da tutto il mondo in un mercato mobiliare e immobiliare da 320.000 abitanti! Col tempo si formava dunque una vera e propria "bolla speculativa" nel mercato immobiliare: si assisteva di fatto all'enorme gonfiarsi del valore degli assets detenuti dalle banche e dalle società finanziarie, con l'esponenziale aumentare del rischio di collasso e crollo dell'intero sistema finanziario al momento dello scoppio della bolla stessa. Se a tutto questo aggiungiamo come nel corso del decennio precedente il settore privato sia pesantemente ricorso al credito, chiedendo sempre più prestiti per investimenti sempre più rischiosi, allora risulta chiaro come si affacciasse anche un problema di allocazione efficiente del risparmio e, per converso, un problema di sovrafinanziamento.
Le premesse per una crisi valutario-finaziaria sul modello della crisi che nel '97-'98 aveva coinvolto le cosiddette "Tigri Asiatiche" vi erano tutte.
Ed ecco il contributo della Banca Centrale islandese: un aumento dei tassi per raffreddare l'economia... ed ecco invece (forse non si conosceva il significato della parola "globalizzazione") nuovi afflussi di capitali dall'estero! Nuovi prestiti, nuovi investimenti, nuovi consumi, nuovo surriscaldamento. Dal 2004 al 2006 le azioni della insignificante Borsa islandese erano quadruplicate. E allora ancora nuovi soldi (telematici) da UE e USA soprattutto. Le minuscole banche islandesi si trovarono in breve con debiti (anche all'estero) superiori di molte volte lo stesso PIL dell'isola. Qualsiasi garanzia di bailout da parte delle autorità islandesi, veniva di fatto meno. O più precisamente veniva meno la stessa credibilità, la stessa fiducia in una garanzia di salvataggio. Il "giocattolo" si stava inesorabilmente rompendo. In particolare bastò che un'agenzia di rating (Fitch) esprimesse dubbi sulla sostenibilità dell'indebitamento islandese per far passare il Paese da un "boom" ad una recessione e ad una depressione profonda, aggravata naturalmente dalla crisi che nel 2008 dagli Usa sta pian piano contagiando il mondo intero. E così arriviamo ai giorni nostri, dove Reykjavík cerca e cercherà probabilmente di rimodulare anzitutto la propria posizione internazionale. Stop all'alleanza preferenziale con gli USA responsabili della nuova crisi che sta colpendo duramente (anche) l'isola. Stop al rapporto privilegiato con i tradizionali alleati scandinavi , Norvegia e Danimarca, colpevoli di aver richiesto condizioni impossibili per un prestito di 6 miliardi di dollari. Riavvicinamento alla Russia, cui è stata peraltro proposta la gestione della base aerea di Keflavic, utilizzata dalla NATO durante la Guerra Fredda. Riavvicinamento all'UE, anche se l'orizzonte dell'adesione rimane, se mai vi sarà, piuttosto distante. L'obiettivo sarebbe quello di sbarazzarsi di una una krona sempre meno brillante. Il tentativo di Ottobre di istituire un cambio fisso a 131 corone per euro è miseramente fallito. La Banca Centrale, Sedlabanki, non aveva riserve valutarie per sostenerlo. Gli operatori neppure si sono accorti dell'acquisto da parte della BC di 786 milioni di corone per 6 milioni di euro. La Sedlabanki di fatto, già in Ottobre, risultava in frantumi.
O Islanda, splendido esempio di finto capitalismo. O Islanda, ci precedi e ci mostri la via. O Islanda ci avevi illuso fosse facile guadagnare e crescere. E ora sei solo un' isola che non c'è. O meglio, un' "isola che non c'è", che ora non c'è più.
Passo e chiudo.
FRA
In realtà, come ora è a tutti facile intuire, l'Islanda non era (ed a maggior ragione adesso, "non è") un Paese così "ricco". Il PIL nominale risultava alla vigilia dell'ultima crisi intorno ai 20 miliardi di dollari (per meno di 320.000 abitanti, dato decisivo), ma tenendo conto del costo della vita il PIL avrebbe raggiunto appena i 12 miliardi. Le riforme degli anni '90 hanno dunque fatto crescere economicamente l'isola (+ 6% all'anno), ma su basi che, come vedremo, erano tutt'altro che solide. In altre parole, si accumulavano vulnerabilità.
Anzitutto era presente un problema di natura fiscale: un elevato rapporto deficit/PIL e persistenti disavanzi di parte corrente. In particolare risultava critico il settore esterno, con limitate esportazioni (ed un elevato indebitamento estero). Il fatto poi che la krona fosse una valuta certamente "debole", rendeva l'isola particolarmente esposta ad attacchi speculativi. Il rischio ovviamente, come abbiamo potuto notare nelle crisi valutarie degli anni '80 e '90, era quello di un fenomeno di capital reversal all'aumentare del rischio e dell'instabilità. Essendo la krona fluttuante nel global forex market (il mercato valutario), le autorità islandesi, al fine di ottenere valuta in prestito, offrivano tassi d'interesse più che ragguardevoli, specie rispetto a UE ed a Stati Uniti. Prendeva così il via un vasto fenomeno di carry trade, una tecnica di arbitraggio valutario che consiste nel prendere a prestito vaste somme nei mercati caratterizzati da bassi tassi d'interesse (ad esempio in Svizzera) ed investirle in obbligazioni a lunga scadenza emesse da Paesi che pagano interessi elevati. Enormi flussi di capitali giungevano così da tutto il mondo in un mercato mobiliare e immobiliare da 320.000 abitanti! Col tempo si formava dunque una vera e propria "bolla speculativa" nel mercato immobiliare: si assisteva di fatto all'enorme gonfiarsi del valore degli assets detenuti dalle banche e dalle società finanziarie, con l'esponenziale aumentare del rischio di collasso e crollo dell'intero sistema finanziario al momento dello scoppio della bolla stessa. Se a tutto questo aggiungiamo come nel corso del decennio precedente il settore privato sia pesantemente ricorso al credito, chiedendo sempre più prestiti per investimenti sempre più rischiosi, allora risulta chiaro come si affacciasse anche un problema di allocazione efficiente del risparmio e, per converso, un problema di sovrafinanziamento.
Le premesse per una crisi valutario-finaziaria sul modello della crisi che nel '97-'98 aveva coinvolto le cosiddette "Tigri Asiatiche" vi erano tutte.
Ed ecco il contributo della Banca Centrale islandese: un aumento dei tassi per raffreddare l'economia... ed ecco invece (forse non si conosceva il significato della parola "globalizzazione") nuovi afflussi di capitali dall'estero! Nuovi prestiti, nuovi investimenti, nuovi consumi, nuovo surriscaldamento. Dal 2004 al 2006 le azioni della insignificante Borsa islandese erano quadruplicate. E allora ancora nuovi soldi (telematici) da UE e USA soprattutto. Le minuscole banche islandesi si trovarono in breve con debiti (anche all'estero) superiori di molte volte lo stesso PIL dell'isola. Qualsiasi garanzia di bailout da parte delle autorità islandesi, veniva di fatto meno. O più precisamente veniva meno la stessa credibilità, la stessa fiducia in una garanzia di salvataggio. Il "giocattolo" si stava inesorabilmente rompendo. In particolare bastò che un'agenzia di rating (Fitch) esprimesse dubbi sulla sostenibilità dell'indebitamento islandese per far passare il Paese da un "boom" ad una recessione e ad una depressione profonda, aggravata naturalmente dalla crisi che nel 2008 dagli Usa sta pian piano contagiando il mondo intero. E così arriviamo ai giorni nostri, dove Reykjavík cerca e cercherà probabilmente di rimodulare anzitutto la propria posizione internazionale. Stop all'alleanza preferenziale con gli USA responsabili della nuova crisi che sta colpendo duramente (anche) l'isola. Stop al rapporto privilegiato con i tradizionali alleati scandinavi , Norvegia e Danimarca, colpevoli di aver richiesto condizioni impossibili per un prestito di 6 miliardi di dollari. Riavvicinamento alla Russia, cui è stata peraltro proposta la gestione della base aerea di Keflavic, utilizzata dalla NATO durante la Guerra Fredda. Riavvicinamento all'UE, anche se l'orizzonte dell'adesione rimane, se mai vi sarà, piuttosto distante. L'obiettivo sarebbe quello di sbarazzarsi di una una krona sempre meno brillante. Il tentativo di Ottobre di istituire un cambio fisso a 131 corone per euro è miseramente fallito. La Banca Centrale, Sedlabanki, non aveva riserve valutarie per sostenerlo. Gli operatori neppure si sono accorti dell'acquisto da parte della BC di 786 milioni di corone per 6 milioni di euro. La Sedlabanki di fatto, già in Ottobre, risultava in frantumi.
O Islanda, splendido esempio di finto capitalismo. O Islanda, ci precedi e ci mostri la via. O Islanda ci avevi illuso fosse facile guadagnare e crescere. E ora sei solo un' isola che non c'è. O meglio, un' "isola che non c'è", che ora non c'è più.
Passo e chiudo.
FRA
2 comments:
Continua così, mi raccomando, farei un sito di informazione con te e altri di pari caratura, sarebbe notevole se il livello base fosse quello dei tuoi articoli
Troppo gentile
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