FRA
L’INVENTORE DELLA LAICITA’
Se è possibile, nella confusione ideologica di questi giorni, esprimere un sommesso parere sulla nota vicenda del Papa alla “Sapienza” e del veto dei 67, ci piace farlo rendendo giustizia ad una persona che, come spesso succede, la storia ha ingiustamente relegato nei “cattivi”.
Questi è Roberto Bellarmino, gesuita, cardinale, santo, insigne studioso, dottore della Chiesa, patrono di insegnanti, catechisti e, secondo alcune fonti, anche degli avvocati, e le cui vicende si intersecano, in modo sorprendentemente attuale, con le circostanze accadute al Sommo Pontefice.
Egli, infatti, fu l’inquisitore della condanna a Galileo Galilei, che rappresenta l’originario casus belli, o meglio sarebbe dire il pretesto, per il “gran rifiuto” all’intervento di Benedetto XVI.
In realtà, intellettuali come Vittorio Messori e Rino Cammilleri già hanno sottolineato, in varie pubblicazioni, come il comportamento di Bellarmino, nell’occasione, fu ineccepibile: era Galileo che pretendeva fosse accettata la sua tesi, senza addurre adeguate prove – contrariamente al metodo scientifico “sperimentale”, di cui lui stesso era stimato iniziatore – e per di più diffondendo clandestinamente i propri scritti in lingua volgare, invece che sottoporli, in latino, alla comunità scientifica del tempo.
Anche la pena inflitta a Galileo dalla terribile Inquisizione fu alquanto mite: qualche anno nella sua villa di Arcetri, detta “Il Gioiello”. Tanto per capirci, come essere messi agli arresti domiciliari a Villa Levi (giardino incluso), pena molto presto commutata nell’obbligo di recitare, una volta alla settimana, i sette salmi penitenziali. Tutto ciò, mentre i suoi studi scientifici proseguivano tranquillamente, finanziati dall’Università Pontificia.
Pure l’idea che le tesi del Galilei non venissero accettate per “contrarietà al Vangelo” è pura leggenda. Era Lutero, e con lui i protestanti con la loro interpretazione “letterale” della Scrittura, a dichiarare blasfeme le tesi copernicane; tanto che Keplero dovette fuggire dalla Svizzera e rifugiarsi, guarda caso, nella cattolica Praga, non senza essere invitato ad esporre le sue tesi copernicane all’Università di Bologna, allora sotto il dominio pontificio.
Bellarmino si dichiarava disposto ad interpretare le frasi della Bibbia, apparentemente contrarie a tale concezione, in senso allegorico, mentre la notissima espressione “La Bibbia insegna come si vada in cielo e non come vada il cielo” è del Collega Inquisitore di Bellarmino, card. Baronio, non certo di Galileo.
Purché questi portasse la prova delle sue teorie, o altrimenti le esponesse in forma ipotetica; senza fare l’ideologo della scienza.
Certo, la limitazione della libertà per la professione di idee scientifiche fu cosa errata: e per questo (solo per questo) Giovanni Paolo II chiese scusa. Ma, ai tempi, la distinzione non poteva essere chiara come oggi: lo stesso Galileo, terminato il processo, bofonchiò un ringraziamento per la pena mite.
Quello che molti non sanno, è che lo stesso Bellarmino può dirsi il vero inventore della laicità, intesa in senso moderno.
O meglio, senza il Giudeo – Cristianesimo la laicità neppure esisterebbe. Normalmente, infatti, in tutte le civiltà, antiche e moderne, la religione è instrumentum regni. Il potere politico, cioè, cerca di inglobare e strumentalizzare il potere religioso, per ottenere una maggiore obbedienza dai sudditi.
Per questo morivano i cristiani nell’antica Roma: non perché non si potesse essere religiosi, ma perché essi rifiutavano di sacrificare all’imperatore, e di considerarlo dio.
Chiaramente, a fronte di tale situazione, il primo passaggio per giungere alla perfetta separazione fra le due sfere non può che essere l’affermazione della superiorità dell’elemento religioso, che tende ad essere soccombente, rispetto al naturalmente predominante potere politico.
Il Dio dell’Antico Testamento, pur consacrando un sovrano a capo di Israele, chiarisce che è Lui stesso a guidare il popolo. Il profeta, infatti, è posto al di sopra del re, che, se non gli obbedisce, viene sconfitto e deposto.
Il conflitto si ripete centinaia di volte: dalla lotta per le investiture nello scenario canossiano, alle chiese nazionali volute da Hitler, all’attuale situazione cinese, è sempre lo Stato che vuole inglobare il potere religioso, ed è la Chiesa cattolica, attraverso la speciale figura del Papa, che non ha equivalente in nessuna delle altre confessioni religiose – infatti ben più facilmente assimilabili -, a rivendicare la superiorità del potere spirituale, per una autonomia totale della religione.
La stessa formula cavouriana libera Chiesa in libero Stato risulta tutt’altro che limpida, solo che si pensi all’incidenza della preposizione “in” nell’epoca in cui ancora sussisteva lo Stato Pontificio.
La parola d’ordine di quel periodo – ed ancor più dopo il 1870 – era infatti “decattolicizzare” e “deuniversalizzare” Roma, per renderla “solo” la città nazionale capitale dello Stato italiano, assorbendo la Chiesa cattolica.
Ancora durante il fascismo, la nomina dei parroci doveva avere il placet del podestà, e fino ai concordati degli anni Ottanta, la stessa situazione si ripeteva per le confessioni diverse dalla cattolica, con il benestare del prefetto.
Insomma, sono molte di più le volte, nella storia, in cui si dà a Cesare ciò che è di Dio, piuttosto che il contrario, e la formula dell’art. 8 della Costituzione Repubblicana, “Chiesa e Stato ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”, rappresenta, per il potere civile, un sofferto punto di approdo di secoli. Non a caso la formulazione si deve a giuristi cattolici come Giuseppe Dossetti.
Chiaro, il rischio opposto è la teocrazia, ma sembra che, partendo dall’altro versante, cioè dalla teorizzazione della superiorità del potere religioso, sia molto più facile approdare, con lucidità di pensiero, alla perfetta distinzione tra le due sfere.
Nella Chiesa cattolica, infatti, ben quattro secoli prima della promulgazione della Costituzione italiana, si giunge ad una formulazione moderna e completa del principio di laicità.
Nel 1581 Roberto Bellarmino scrive l’opera De Summo Pontifice, nella quale delinea la tesi della potestas indirecta in temporalibus.
In contrapposizione alla concezione teocratica, per la quale ogni autorità doveva essere direttamente investita dalla Chiesa, la quale aveva potere di veto diretto ed immediato sulle leggi civili, Bellarmino evidenzia come l’unica possibilità di intervento della Chiesa, a fronte di leggi ingiuste ed in contrasto con le sue leggi eterne, sia di premere indirettamente sulla coscienza dei governanti, perché non siano emanate, e dei fedeli, perché non le osservino.
Nessun privilegio o potere diretto nella vita dello Stato, ma il mero richiamo alle coscienze, al foro interiore.
La tesi, ripresa dalla moderna dottrina con il nome di potestas mediata, e fatta propria dal Concilio Vaticano II - che ne ha specificato la particolare applicazione nei regimi democratici, sotto forma di richiamo ai fedeli elettori – è l’unica potestà in materia temporale oggi rivendicata dalla Chiesa, e rappresenta la perfetta enunciazione, sul versante religioso, di quel principio di laicità poi formulato anche dallo Stato.
Senza la Chiesa cattolica e la sua strenua difesa della propria libertà religiosa, specie attraverso la figura del Papa, e senza pensatori come Bellarmino, la laicità non potrebbe neppure concepirsi.
Ci piacerebbe che qualche laico, ogni tanto, lo riconoscesse.
Altrimenti, pregheremo san Roberto Bellarmino per loro.
Avv. Matteo Fortelli
-Unione giuristi cattolici Reggio Emilia-
Fonti
V. Messori, Pensare la storia, Ed. Paoline
F. Finocchiaro, Diritto Ecclesiastico, Zanichelli
M. Viglione "Libera Chiesa in libero Stato?" Il Risorgimento ed i cattolici: uno scontro epocale, Città Nuova
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