Monday, December 24, 2007
Friday, December 21, 2007
TT - WOJTEK PILICHOWSKI.
Possibile scrivere tre bass tutoring schoolbooks (manuli per basso) senza avere mai avuto alcuna educazione musicale in senso "istituzionale", insomma essendo fondamentalmente degli autodidatti? Sì, se ti chiami Wojtek Pilichowski. I grandi appassionati di basso possono saltare a piè pari questo articolo e andarsi a vedere direttamente i video che propongo sotto. Agli altri, che non conoscono ancora il personaggio (P-greco Pilichowski), consiglio invece di continuare la lettura.
Wojtek nasce nel "malfamato distretto di Grochów", come ama lui stesso definirlo, presso Varsavia. Racconta: "Potrebbe sembrare un cliché, ma la musica era il mio modo di fuggire dalla realtà". "Volevo frequentare la scuola superiore di musica, ma non erano di certo desiderosi di prendere gente come me, col mio Grochów background". "Poi un mio amico mise in vendita il suo basso ed io iniziai a mettere da parte abbastanza soldi per comprarlo". "I miei primi anni di basso furono abbastanza strani: non potevo neppure vedere facilmente delle lezioni video, perchè solo due persone che conoscevo avevano un VHS!... comunque le mie prime lezioni furono video, ed in particolare decisivo fu il video di Tony Oppenheim, Slap It!".
Dopo aver lavorato nel 1991 in Italia come tecnico del suono (riguardo quell'esperienza Wojtek dice: "mi ripromisi da allora che non avrei mai più lavorato in nero"), ritorna in Polonia lavorando come security guard in un caffé di Varsavia. Poi, un bel giorno, una telefonata. Era Jan Borysewicz, chitarrista con alle spalle 6 milioni di copie vendute. Voleva iniziare un nuovo progetto (Jan Bo) ed aveva iniziato delle audizioni per cercare un bassista. "Fui subito preso; fui molto fortunato, considerando anche che pochi giorni dopo una bomba esplose nel caffé dove fino a pochi giorni prima lavoravo". "Lavorando con Borysewicz riuscì ad estinguere tutti i miei debiti ed a comprarmi la mia prima auto". "Andai negli States dove per la prima volta vidi dal vivo quegli artisti che fino ad allora avevo solo visto sullo schermo oppure che solo avevo ascoltato su di un nastro. Compresi una cosa importante: quei personaggi non erano dei, ma persone che come me e come tutte le altre si svegliano alla mattina e si spazzolano i denti".
La carriera di Pilichowski è stata ed è impressionante. Michal Urbaniak, Greg Bizonet, Maryla Radowicz, Edyta Gornyak sono solo alcune delle sue collaborazioni. Ha partecipato ad oltre 100 album. 5 sono i suoi album da solista, 1 sotto il nickname Dyplom. Ha fondato la Pilichowski Band (insieme a Wojcieck Olszack, Kamil Baranski, Radek Owczarz, Bartlomiej Papierz): bellissimo l'album "Jazzga-Live in Lodz", nel quale la band esegue la famosissima cover di "Message in a bottle". Wojtek è inoltre tra i fondatori del supergruppo polacco Woobie Doobie, centro di gravità delle scene funky, jazz, fusion, pop, rock polacche: il gruppo ha suonato in studio con diversi artisti, con un totale di 150 album registrati. Attualmente oltre alla carriera solista, Pilichowski è anche bassista della band di Kasia Kowalska e del progetto TTr2, insieme a Marek Raduli e Tomasz Losowski. Gli impegni non mancano dunque per Pilichowski e la dimensione live è sicuramente la preferita dal nostro. La sua media annuale è di circa 120 concerti: non male dunque... Numerosi sono anche i premi ricevuti da Wojtek: basti ricordare l'inserimento del suo nome per ben due volte nella Best Polish Rhythm Section.
Tecnica sì, ma non solo. In Pilichowski infatti la tecnica non è mai fine a se stessa. Vi è passione nel suo stile, nel comunicare attraverso le note. Vi è espressività, assenza di stonature, assenza di inutilità. L'assolo di Pilichowski è solo un assolo: non il "centro" del brano. Anche laddove il basso suona in maniera "percussiva", non è il basso stesso a prevalere. Una grande capacità di "restare al suo posto", di comprendere "l'economia della band", le dinamiche strumentali. Il non esitare a passare in secondo piano, limitandosi talora ad un ruolo di puro sostegno e riempimento. Questo forse distingue Pilichowski da altre stelle del mondo a 4 corde (o talora a 5, 6, o 7), prima tra tutte Victor Wooten. Solo così possiamo capire le innumerevoli collaborazioni di Wojtek Pilichowski: un costante desiderio di mettersi in gioco, di provare nuove esperienze sonore, sempre però rimanendo fedele alla sua passione funky-fusion, ma senza disdegnare altri orizzonti che vanno dal jazz al pop.
E quando la tecnica musicale è capace di susciatare emozioni, allora non può che commuovere e strabiliare allo stesso tempo.
Di sotto propongo tre video. Il primo è un live (in Gorzow - 2007) della Pilichowski Band, il brano è "Po lekcjach". Il secondo video è un assolo live di Wojtek. Il terzo è il videoclip del brano "Twoje cztery strony", qui cantato da Sylwia Wisniewska.
Passo e chiudo.
FRA
Dopo aver lavorato nel 1991 in Italia come tecnico del suono (riguardo quell'esperienza Wojtek dice: "mi ripromisi da allora che non avrei mai più lavorato in nero"), ritorna in Polonia lavorando come security guard in un caffé di Varsavia. Poi, un bel giorno, una telefonata. Era Jan Borysewicz, chitarrista con alle spalle 6 milioni di copie vendute. Voleva iniziare un nuovo progetto (Jan Bo) ed aveva iniziato delle audizioni per cercare un bassista. "Fui subito preso; fui molto fortunato, considerando anche che pochi giorni dopo una bomba esplose nel caffé dove fino a pochi giorni prima lavoravo". "Lavorando con Borysewicz riuscì ad estinguere tutti i miei debiti ed a comprarmi la mia prima auto". "Andai negli States dove per la prima volta vidi dal vivo quegli artisti che fino ad allora avevo solo visto sullo schermo oppure che solo avevo ascoltato su di un nastro. Compresi una cosa importante: quei personaggi non erano dei, ma persone che come me e come tutte le altre si svegliano alla mattina e si spazzolano i denti".
La carriera di Pilichowski è stata ed è impressionante. Michal Urbaniak, Greg Bizonet, Maryla Radowicz, Edyta Gornyak sono solo alcune delle sue collaborazioni. Ha partecipato ad oltre 100 album. 5 sono i suoi album da solista, 1 sotto il nickname Dyplom. Ha fondato la Pilichowski Band (insieme a Wojcieck Olszack, Kamil Baranski, Radek Owczarz, Bartlomiej Papierz): bellissimo l'album "Jazzga-Live in Lodz", nel quale la band esegue la famosissima cover di "Message in a bottle". Wojtek è inoltre tra i fondatori del supergruppo polacco Woobie Doobie, centro di gravità delle scene funky, jazz, fusion, pop, rock polacche: il gruppo ha suonato in studio con diversi artisti, con un totale di 150 album registrati. Attualmente oltre alla carriera solista, Pilichowski è anche bassista della band di Kasia Kowalska e del progetto TTr2, insieme a Marek Raduli e Tomasz Losowski. Gli impegni non mancano dunque per Pilichowski e la dimensione live è sicuramente la preferita dal nostro. La sua media annuale è di circa 120 concerti: non male dunque... Numerosi sono anche i premi ricevuti da Wojtek: basti ricordare l'inserimento del suo nome per ben due volte nella Best Polish Rhythm Section.
Tecnica sì, ma non solo. In Pilichowski infatti la tecnica non è mai fine a se stessa. Vi è passione nel suo stile, nel comunicare attraverso le note. Vi è espressività, assenza di stonature, assenza di inutilità. L'assolo di Pilichowski è solo un assolo: non il "centro" del brano. Anche laddove il basso suona in maniera "percussiva", non è il basso stesso a prevalere. Una grande capacità di "restare al suo posto", di comprendere "l'economia della band", le dinamiche strumentali. Il non esitare a passare in secondo piano, limitandosi talora ad un ruolo di puro sostegno e riempimento. Questo forse distingue Pilichowski da altre stelle del mondo a 4 corde (o talora a 5, 6, o 7), prima tra tutte Victor Wooten. Solo così possiamo capire le innumerevoli collaborazioni di Wojtek Pilichowski: un costante desiderio di mettersi in gioco, di provare nuove esperienze sonore, sempre però rimanendo fedele alla sua passione funky-fusion, ma senza disdegnare altri orizzonti che vanno dal jazz al pop.
E quando la tecnica musicale è capace di susciatare emozioni, allora non può che commuovere e strabiliare allo stesso tempo.
Di sotto propongo tre video. Il primo è un live (in Gorzow - 2007) della Pilichowski Band, il brano è "Po lekcjach". Il secondo video è un assolo live di Wojtek. Il terzo è il videoclip del brano "Twoje cztery strony", qui cantato da Sylwia Wisniewska.
Passo e chiudo.
FRA
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Saturday, December 15, 2007
SISTEMI ELETTORALI COMPARATI. (Comparative electoral systems)
Una cosa è certa: nessun partito vuole andare al referedum. La tanto criticata legge 270/2005 in realtà accontenta tutte le segreterie di partito, se non altro per le cosiddette "liste bloccate". La Corte Costituzionale si pronuncierà fra poco più di un mese sull'ammissibilità del referendum. Il giudizio, considerato come è stato steso il quesito referendario, sarà quasi sicuramente favorevole. Si chiede infatti l'impossibilità di "candidature multiple" e l'abrogazione del premio di magggioranza per le coalizioni: il premio sarà diretto alle liste. Gli effetti sarebbero un automatico innalzamento delle soglie di sbarramento (al Senato dal 4 all'8% ed alla Camera dal 2 al 4%) con conseguente "eliminazione" dei partiti minori ed un venir meno delle coalizioni, nonchè della varietà partitica che esse portano al loro interno. La critica che viene fatta a tale possibile evoluzione riguarda la possibilità per le forze partitiche di unirsi per le elezioni in "listoni" e di dividersi successivamente in parlamento in una nuova miriade di forze. Questa critica però non tiene conto di due fattori: primo, il sistema partitico, pur non essendo direttamente e totalmente il risultato del sistema elettorale (come vorrebbe la tesi di Duverger, maggioritario=bipartitismo e proporzionale=multipartitismo, smentita nella pratica in vari casi come ad esempio l'India, maggioritario con multipartitismo) non è ad esso indifferente; secondo, sarebbe possibile evitare ciò che la critica paventa attraverso regolamenti parlamentari (come in Germania o Spagna) che prevedano l'impossibilità di dar luogo a gruppi parlamentari non corrispondenti alle liste che hanno partecipato alle elezioni... servirebbe solo la volontà politica di farlo.
Abbiamo dunque capito il motivo per cui già da diversi mesi si stia parlando di "legge elettorale". A ciò si aggiunga che una legge del '70 in tema di referendum abrogativo (o meglio "abrogativo/manipolativo") prevede che nel caso il parlamento modifichi una norma oggetto di futuro referndum, allora tale referdum, essendo mutato il suo oggetto, non si terrà. La dottrina della Corte Costituzionale ha rettificato tale principio sostenedo che la modifica debba riguardare la sostanza della norma, non solo la forma, non potendo dunque essere una modifica di pura facciata. Si tenga infine presente come la Corte Costituzionale si stata sempre titubante nell'approvare referendum abrogativi su leggi elettorali, creando la fattispecie delle "leggi costituzionalmente necessarie", affiancando quindi alle leggi elencate dall'art.75 della Costituzione (es. leggi di bilancio), leggi per le quali è dichiarato inammisibile il referendum, le leggi elettorali.
Ecco allora che oggi diversi uomini politici propongono vari "modelli": spagnolo, tedesco, francese, inglese etc. L'importante sembra essere evitare il referendum. Cerchiamo allora di fare chiarezza, con semplicità. Bisogna capire di cosa si sta parlando quando si parla di un determinato "modello", bisogna capirne le ragioni, ma soprattutto le conseguenze.
Partiamo con una considerazione generale: come al solito, quando si parla di "sistemi elettorali" si scontrano due principi, che sono "la rappresentatività" e "la governabilità". "La democraticità" non ha nulla a che vedere con questo discorso. Un sistema è democratico quanto un altro se vengono rispettati i principi fondamentali della democrazia. Chiariamolo fin d'ora. Ci troviamo così dinanzi alle due grandi famiglie elettorali: il proporzionale ed il maggioritario. Non sto qui a spiegare le molteplicità di formule (ciò vale soprattutto per il proporzionale) in cui tali sistemi si possono concretizzare. Piuttosto dico che in genere si considera il proporzionale più adatto per quei sistemi politici e per quelle società dove sono più ampie e numerose le fratture sociali (nel senso di Rokkan - le cui opere, lettura illuminante e fondamentale, consiglio a tutti). Al contrario il maggioritario sembrerebbe più indicato laddove queste "fratture" non esistono o sono poco presenti. Questo approccio stava alla base anche della scelta nel '48 di un sistema fortemente proporzionale che sarebbe durato fino al '93, avvento del cosiddetto "mattarellum", 1/4 proporzionale e 3/4 maggioritario, sostituito a sua volta proprio dallo "schizofrenico" proprzionale della l. 270/2005.
Capito questo, è poi possibile procedere ad una discussione sulla base dei risultati politici che si desiderano ottenere. Certamente la frammentazione partitica è un problema grave per il Parlamento italiano. D'altra parte però vi è anche una esigenza di rappresentatività che non può venir meno, tanto più in un sistema politico in progressiva "americanizzazione".
Il vero pericolo ritengo che derivi da una coesistenza dei due aspetti: frammentazione + americanizzazione. Molteplicità di partiti tutti uguali tra loro, tutti ugualmente "vuoti", senza programma, ideologia, finalità altra se non quella di governare. Piccoli partiti "vuoti" e grandi partiti "vuoti". La strada avviata già da parecchio tempo mi pare purtroppo quella. E la legge elettorale riguarda comunque solo metà del problema.
Passo e chiudo.
FRA
Ecco allora che oggi diversi uomini politici propongono vari "modelli": spagnolo, tedesco, francese, inglese etc. L'importante sembra essere evitare il referendum. Cerchiamo allora di fare chiarezza, con semplicità. Bisogna capire di cosa si sta parlando quando si parla di un determinato "modello", bisogna capirne le ragioni, ma soprattutto le conseguenze.
Partiamo con una considerazione generale: come al solito, quando si parla di "sistemi elettorali" si scontrano due principi, che sono "la rappresentatività" e "la governabilità". "La democraticità" non ha nulla a che vedere con questo discorso. Un sistema è democratico quanto un altro se vengono rispettati i principi fondamentali della democrazia. Chiariamolo fin d'ora. Ci troviamo così dinanzi alle due grandi famiglie elettorali: il proporzionale ed il maggioritario. Non sto qui a spiegare le molteplicità di formule (ciò vale soprattutto per il proporzionale) in cui tali sistemi si possono concretizzare. Piuttosto dico che in genere si considera il proporzionale più adatto per quei sistemi politici e per quelle società dove sono più ampie e numerose le fratture sociali (nel senso di Rokkan - le cui opere, lettura illuminante e fondamentale, consiglio a tutti). Al contrario il maggioritario sembrerebbe più indicato laddove queste "fratture" non esistono o sono poco presenti. Questo approccio stava alla base anche della scelta nel '48 di un sistema fortemente proporzionale che sarebbe durato fino al '93, avvento del cosiddetto "mattarellum", 1/4 proporzionale e 3/4 maggioritario, sostituito a sua volta proprio dallo "schizofrenico" proprzionale della l. 270/2005.
Ma lasciamo da parte l'Italia e guardiamo agli altri modelli dei quali ultimamente si parla. La Francia. Il metodo è qui, per l'elezione dell'Assemblea Nazionale, maggioritario majority (doppio turno) al primo turno, plurality (eletto chi ottiene la maggioranza relativa) al secondo turno. In particolare passa al secondo turno chi ottiene il 12% dei voti degli aventi diritto, nella pratica, contando gli astenuti, si può arrivare a dover ottenere il 20%. Il risultato è quandi quello di una competizione aperta, ampia, ma molto selettiva, con un incetivo al bipartitismo (da non confondere con la "bipolarizzazione). Ancor più selettivo, anzi il più selettivo è il metodo inglese, plurality puro. La distorsione della realtà elettorale è enorme, la governabilità (accentuata da una forma di governo incentrata totalmente sul premier) è ampissima. In ogni collegio uninominale viene qui eletto chi ottiene la maggioranza (relativa). Contrariamente al caso francese ed a quanto si potrebbe pensare, l'esito non è il bipartitismo. Favoriti sono certamente i grandi partiti (laburisti e conservatori oggi, liberali e conservatori un tempo), ma anche i partiti molto concentrati territorialmente (indipendentisti gallesi, scozzesi, nordirlandesi etc.). Così in parlamento ritroviamo sei o sette partiti, con grande penalizzazione per quei partiti, come il Partito Liberale oggi che, pur ottenendo molti voti, ottengono pochissimi seggi, essendo il loro elettorato molto "spalmato" sul territorio. Un esito simile lo riscontiamo in Spagna, dove "sulla carta" il sistema è proporzionale, ma gli esiti sono chiaramente maggioritari. Questo avviene per due motivi: primo, la legge elettorale è proporzionale, ma non prevede il "recupero dei resti", ovvero i voti che risulatano "in più" rispetto ai "pacchetti" di voti definiti dai quozienti (numero di voti diviso numero di seggi) non vengono redistribuiti, con evidenti effetti di sproporzionalizzazione; secondo, i collegi sono in media molto piccoli (si va dai 44 seggi del collegio di Madrid ai 2 del collegio di Ceuta, ma la media è intorno ai 6 seggi), con un altro effetto di sproporzionalizzazione (è intuitivo infatti che meno seggi sono assegnati in un collegio, meno possibilità ha un partito piccolo di ottenere un seggio in quel collegio). Il risulato è simile a quello inglese: favoriti i grandi partiti (socialisti e popolari) oltre ai partiti concentrati territorialmente (baschi, catalani etc). Sfavoriti anche qui i partiti con elettorato "spalmato" come la Sinistra Unita. Evidentemente il risultato voluto, risponde ad una esigenza politico-storico spagnola: quella di affiancare alle forze promotrici di una forte unità nazionale, quelle rappresentative degli indipendentismi che hanno caratterizzato la storia spagnola, tentando al contempo di limitare il rischio di una deriva verso il multipartitismo estremo. Infine la formula adottata in Germania, definita da Lanchester come "proporzionale personalizzato". Se osserviamo una scheda elettorale per il Bundestag, notiamo come nella parte destra abbiamo la scelta tra diversi partiti, nella sinistra tra diversi candidati. A destra (la parte che veramente conta) il metodo utilizzato è proporzionale (variante del metodo del "quoziente naturale e dei più alti resti", mentre prima era il "metodo d'Hondt"), con soglia di sbarramento al 5% e la necessità per un partito di ottenere almeno tre seggi "nella parte sinistra" della scheda. In questa parte si tenta di rispondere alla domanda "chi?" all'interno del partito della "parte destra" della scheda. I singoli candidati vengono qui eletti all'interno di collegi uninominali, con metodo plurality. Ecco perchè il sistema tedesco rappresenta un unicum: è un sistema proporzionale nella quale riscontriamo la presenza di collegi uninominali e non plurinominali. Speculare è il sistema americano dei "Grandi Elettori", utilizzato per l'elezione del Presidente: maggioritario con collegi (ogni Stato Federato) plurinominali.
Spero che quanto detto aiuti nella comprensione del dibattito attuale sulla legge elettorale, o almeno aiuti nella riflessione sulle varie proposte, nella consapevolezza però del timore da parte di tutte le forze politiche di un ricorso al referendum abrogativo.Capito questo, è poi possibile procedere ad una discussione sulla base dei risultati politici che si desiderano ottenere. Certamente la frammentazione partitica è un problema grave per il Parlamento italiano. D'altra parte però vi è anche una esigenza di rappresentatività che non può venir meno, tanto più in un sistema politico in progressiva "americanizzazione".
Il vero pericolo ritengo che derivi da una coesistenza dei due aspetti: frammentazione + americanizzazione. Molteplicità di partiti tutti uguali tra loro, tutti ugualmente "vuoti", senza programma, ideologia, finalità altra se non quella di governare. Piccoli partiti "vuoti" e grandi partiti "vuoti". La strada avviata già da parecchio tempo mi pare purtroppo quella. E la legge elettorale riguarda comunque solo metà del problema.
Passo e chiudo.
FRA
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Etichette: International Relations, Politics
Wednesday, December 12, 2007
LA MICCIA KOSOVARA. (The Kosovarian fuse)
In Kosovo si gioca e si giocherà nei prossimi mesi la stabilità e la pace nei Balcani, in Europa e forse non solo. Qui va rivolta, nello scenario internazionale, la nostra attenzione. Il Kosovo è una miccia: sotto vi è una polveriera pronta ad esplodere. Ancora una volta, certo, ma forse in maniera anche peggiore rispetto al passato.
Ma che succede in Kosovo? Semplice: kosovari e serbi non sono stati capaci di trovare in questi anni un accordo sullo status del Kosovo stesso e di Pristina in particolare, e resosi palese il fallimento, ora qualsiasi momento potrebbe essere buono per una dichiarazione di indipendenza unilaterale kosovara. Anzi, Skender Hyseni, portavoce del team negoziale del Kosovo, ha assicurato che l'indipendenza da Belgrado avverrà prima di maggio. Secondo alcuni osservatori però, avverrà precisamente verso la fine di Gennaio, subito dopo le elezioni serbe, in modo da non favorire una reazione in senso ultra-nazionalista nell'elettorato.
Ma quale sarebbe la conseguenza di un Kosovo indipendente? Facile da immaginare. Ma soprattutto come si muoveranno gli altri indipendentismi nello scacchiere euroasiatico? Come si muoveranno i turchi di Cipro? I curdi della Turchia? I ceceni in Russia? E tutte le altre minoranze balcaniche (maggioranze nelle rispettive regioni)? Ma volendo anche i corsi in Francia o i baschi in Spagna?
Per affrontare "di petto" la questione, occorre fare un passo indietro. Cercare di capire cos'è il Kosovo e come si è arrivati a questa situazione. Da centinaia e centinaia di anni tutta l'area che abbiamo conosciuto come "Yugoslavia" era stata abitata da popolazione illirica ("Illiria" era l'antico nome della regione). A partire dal VII-VIII sec. vi furono le prime invasioni barbariche slave con i primi insediameti "serbi". La coabitazione inizialmente abbastanza pacifica, si evolse definitivamente in vera e propria rivalità tra coloni serbi e componente albanese dell'area (erede degli antichi illiri). Per evitare di essere annientati dai musulmani, gli albanesi intanto si erano covertiti, durante il periodo di dominio ottomano, all'islamismo. In questo contesto si inserisce un'evento che avrà una portata epocale nella storia serba, anche se sarebbe più corretto dire, una portata "mitica": la battaglia di Kosevo Poljie, o "campo dei merli", correva l'anno 1398. In quella battaglia la nobiltà serba veniva distrutta dall'esercito ottomano, in quello che era il primo tentativo di conquista dell'Europa, che sarebbe culminato nell'assedio di Vienna tre secoli più tardi. Da quel momento il Kosovo sarebbe diventato la culla della civiltà serba nell'immaginario collettivo serbo e il simbolo di come la Serbia ortodossa si sia sacrificata per gli "ingrati" europei dinanzi alla minaccia musulmana. Crollato l'impero ottomano i serbi attuarono veri e propri pogrom nei confronti dell'elemento albanese, il quale tentava di trovare rifugio in Turchia. Il Kosovo era ormai stabilmente serbo, certamente con una cospicua componente albanese, ma tuttavia "la storia" e "il mito" pendevano dalla parte dei serbi.
Questa la situazione alla vigilia dello scoppio della guerra nel 1999, ma con una piccola variante: gli albanesi kosovari, più prolifici, erano ormai nettamente la maggioranza. Il braccio armato degli albanesi, l'UCK (Esercito di Liberazione Nazionale), già dal 1997 attuava (appoggiato dagli Usa) una vera e propria guerriglia, servendosi anche di atti di terrorismo, mentre dall'altra parte i serbi attuavano una dura repressione. Rapporti di intelligence (?) occidentali facevano trapelare, dopo la scoperta di una fossa comune, l'intenzione serba di eleminare gli albanesi del Kosovo. La "comunità internazionale" (ovvero la NATO) decise allora di intervenire, era il 24 Marzo 1999. L'offensiva aerea sulla Serbia terminò il 10 Giugno, con la totale distruzione delle infrastrutture, delle basi militari, dei depositi, delle raffinerie, delle centrali elettriche. In Kosovo invece la NATO "si accontentò" di sparare circa 38.000 proiettili all'uranio impoverito, gli effetti dei quali sono ancora ben visibili nella popolazione locale e nei soldati dei vari contingenti ancora presenti sul territorio. Dopo il crollo della Serbia, Milosevic capì che la sua sopravvivenza politica si sarebbe giocata sull'accettazione dell'invio di truppe NATO nel Kosovo, le quali avrebbero tutelato i serbi rimasti da una nuova vendetta albanese.
Ma che succede in Kosovo? Semplice: kosovari e serbi non sono stati capaci di trovare in questi anni un accordo sullo status del Kosovo stesso e di Pristina in particolare, e resosi palese il fallimento, ora qualsiasi momento potrebbe essere buono per una dichiarazione di indipendenza unilaterale kosovara. Anzi, Skender Hyseni, portavoce del team negoziale del Kosovo, ha assicurato che l'indipendenza da Belgrado avverrà prima di maggio. Secondo alcuni osservatori però, avverrà precisamente verso la fine di Gennaio, subito dopo le elezioni serbe, in modo da non favorire una reazione in senso ultra-nazionalista nell'elettorato.
Ma quale sarebbe la conseguenza di un Kosovo indipendente? Facile da immaginare. Ma soprattutto come si muoveranno gli altri indipendentismi nello scacchiere euroasiatico? Come si muoveranno i turchi di Cipro? I curdi della Turchia? I ceceni in Russia? E tutte le altre minoranze balcaniche (maggioranze nelle rispettive regioni)? Ma volendo anche i corsi in Francia o i baschi in Spagna?
Per affrontare "di petto" la questione, occorre fare un passo indietro. Cercare di capire cos'è il Kosovo e come si è arrivati a questa situazione. Da centinaia e centinaia di anni tutta l'area che abbiamo conosciuto come "Yugoslavia" era stata abitata da popolazione illirica ("Illiria" era l'antico nome della regione). A partire dal VII-VIII sec. vi furono le prime invasioni barbariche slave con i primi insediameti "serbi". La coabitazione inizialmente abbastanza pacifica, si evolse definitivamente in vera e propria rivalità tra coloni serbi e componente albanese dell'area (erede degli antichi illiri). Per evitare di essere annientati dai musulmani, gli albanesi intanto si erano covertiti, durante il periodo di dominio ottomano, all'islamismo. In questo contesto si inserisce un'evento che avrà una portata epocale nella storia serba, anche se sarebbe più corretto dire, una portata "mitica": la battaglia di Kosevo Poljie, o "campo dei merli", correva l'anno 1398. In quella battaglia la nobiltà serba veniva distrutta dall'esercito ottomano, in quello che era il primo tentativo di conquista dell'Europa, che sarebbe culminato nell'assedio di Vienna tre secoli più tardi. Da quel momento il Kosovo sarebbe diventato la culla della civiltà serba nell'immaginario collettivo serbo e il simbolo di come la Serbia ortodossa si sia sacrificata per gli "ingrati" europei dinanzi alla minaccia musulmana. Crollato l'impero ottomano i serbi attuarono veri e propri pogrom nei confronti dell'elemento albanese, il quale tentava di trovare rifugio in Turchia. Il Kosovo era ormai stabilmente serbo, certamente con una cospicua componente albanese, ma tuttavia "la storia" e "il mito" pendevano dalla parte dei serbi.
Questa la situazione alla vigilia dello scoppio della guerra nel 1999, ma con una piccola variante: gli albanesi kosovari, più prolifici, erano ormai nettamente la maggioranza. Il braccio armato degli albanesi, l'UCK (Esercito di Liberazione Nazionale), già dal 1997 attuava (appoggiato dagli Usa) una vera e propria guerriglia, servendosi anche di atti di terrorismo, mentre dall'altra parte i serbi attuavano una dura repressione. Rapporti di intelligence (?) occidentali facevano trapelare, dopo la scoperta di una fossa comune, l'intenzione serba di eleminare gli albanesi del Kosovo. La "comunità internazionale" (ovvero la NATO) decise allora di intervenire, era il 24 Marzo 1999. L'offensiva aerea sulla Serbia terminò il 10 Giugno, con la totale distruzione delle infrastrutture, delle basi militari, dei depositi, delle raffinerie, delle centrali elettriche. In Kosovo invece la NATO "si accontentò" di sparare circa 38.000 proiettili all'uranio impoverito, gli effetti dei quali sono ancora ben visibili nella popolazione locale e nei soldati dei vari contingenti ancora presenti sul territorio. Dopo il crollo della Serbia, Milosevic capì che la sua sopravvivenza politica si sarebbe giocata sull'accettazione dell'invio di truppe NATO nel Kosovo, le quali avrebbero tutelato i serbi rimasti da una nuova vendetta albanese.
Possiamo dire oggi che il piano per il Kosovo con amministrazione a guida NATO, sia miseramente fallito. Certo la permanenza dei contingenti è ed è stata essenziale per la sicurezza di quei pochissimi serbi rimasti, ma è proprio questo il punto: in Kosovo si è realizzata da allora (dopo quella di Tudjman in Croazia, 800.000 serbi cacciati) la più grande "pulizia etnica" dei Balcani, con 360.000 serbi mandati via (oltre a chiese e monsteri ortodossi dati alle fiamme).
Ora "i nodi tornano al pettine". Ancora una volta. Ancora in Kosovo. Le alleanze diplomatiche sono sempre le stesse. Gli Usa appoggiano l'indipendenza e Bush nell'ultima sua visita a Tirana ha promesso esplicitamente, con la sua solita leggerezza e incoscienza, "un Kosovo indipendente". La Russia, da sempre "protettrice" della Serbia, continua nella sua linea di chiara opposizione a qualsiasi soluzione che sancisca un definitivo distacco da Belgrado, temendo fra l'altro le possibili ripercussioni in Cecenia. L'Unione Europea come al solito tentenna, propendendo però in linea di massima per la tesi di Washington, con la sola eccezione di Cipro, timorosa, come si è detto, per le conseguenze sulla sua "parte turca".
Le diplomazie sono in fermento, si fiuta il pericolo. Le ipotesi "sul piatto" sono diverse: se da un lato il vicepremier serbo Djelic ha già rifiutato qualsiasi sorta di scambio "Kosovo-ingresso UE", dall'altra si studiano anche ipotesi di divisione del territorio kosovaro in due province.
Ora "i nodi tornano al pettine". Ancora una volta. Ancora in Kosovo. Le alleanze diplomatiche sono sempre le stesse. Gli Usa appoggiano l'indipendenza e Bush nell'ultima sua visita a Tirana ha promesso esplicitamente, con la sua solita leggerezza e incoscienza, "un Kosovo indipendente". La Russia, da sempre "protettrice" della Serbia, continua nella sua linea di chiara opposizione a qualsiasi soluzione che sancisca un definitivo distacco da Belgrado, temendo fra l'altro le possibili ripercussioni in Cecenia. L'Unione Europea come al solito tentenna, propendendo però in linea di massima per la tesi di Washington, con la sola eccezione di Cipro, timorosa, come si è detto, per le conseguenze sulla sua "parte turca".
Le diplomazie sono in fermento, si fiuta il pericolo. Le ipotesi "sul piatto" sono diverse: se da un lato il vicepremier serbo Djelic ha già rifiutato qualsiasi sorta di scambio "Kosovo-ingresso UE", dall'altra si studiano anche ipotesi di divisione del territorio kosovaro in due province.
Staremo a vedere. Una cosa però è certa: la Serbia non rinuncierà mai totalmente al Kosovo. Non è chiaro cosa, per Belgrado, potrebbe compensare la perdita di quel territorio (peraltro geostrategicamente determinante nei Balcani). Sicuramente non l'ingresso nell'Unione Europea (almeno nel medio-breve periodo), sarebbe come dire ai serbi: "il premio per aver ceduto un pezzo della vostra sovranità, è la cessione di un altro pezzo della vostra sovranità"!!!
Passo e chiudo.FRA
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Monday, December 10, 2007
EL METODO (The method)
A cosa sei disposto a rinunciare per un posto di lavoro? Questa è la domanda centrale del bel film di Marcelo Piñeyro datato 2005, produzione spagnola-argentina che riprende un'opera teatrale di Jordi Galcerán. La trama è semplicissima: un gruppo di persone si presenta in un ufficio per cercare lavoro. Dopo la compilazione di un questionario vengono fatti sedere attorno ad un tavolo, ognuno con un monitor davanti a sè. Non vi è nessun altro nella stanza, ad eccezione di una segretaria che ogni tanto entra ed esce. Solo uno di loro otterrà l'ambito posto, in quella che a tutti gli effetti appare come una grossa multinazionale. Saranno selezionati attraverso un metodo: è il metodo Gronholm. Nessuno sa di preciso in che cosa consista tale metodo. Sin da subito però si intuisce quale sia la ratio di fondo. Nello schermo di uno dei candidati compare un messaggio: "uno di voi non è un vero candidato, decidete chi sia, a quel punto egli verrà eliminato dalla selezione".
Un'aspra lotta, un rinunciare ai propri valori, uno svendersi, un puntare all'eliminazione dell'altro. Dal monitor le indicazioni per le prove sono sempre minimali, stringate. Saranno i candidati ad organizzarsi, sarà la loro interazione l'oggetto della valutazione dell'anonimo computer.
Un thriller? Da alcuni punti di vista sì. Un commedia? Anche. Un film drammatico? Anche questo. Sopprattutto però un'occasione per riflettere sulle "leggi dell'impresa", sulla competizione ad ogni costo.
Propongo sotto un estratto significativo dell'opera, nella quale "il monitor" chiede ai candidati di dimostrare perchè, in un ipotetico futuro post-conflitto nucleare dove i candidati dovranno vivere in un rifugio anti-atomico, la loro presenza sarà necessaria. Dovranno dimostrare ciò usando esclusivamente i dati presenti nei loro curricula. Chi sarà rienuto "non necessario", dovrà uscire dalla selezione.
Passo e chiudo.
FRA
Un thriller? Da alcuni punti di vista sì. Un commedia? Anche. Un film drammatico? Anche questo. Sopprattutto però un'occasione per riflettere sulle "leggi dell'impresa", sulla competizione ad ogni costo.
Tutto il film è praticamente ambientato in una stanza, asettica, quasi irreale. Tale stanza è con tutta probabilità posta in cima ad un grattacielo. La dimesione verticistica è una componente essenziale dell'opera: chi aspira a quel posto di lavoro ha già una carriera alle spalle, ha già "scalato" diverse posizioni, ed ora si trova lì, uno degli ultimi gradini prima del vertice. Per salirli, occorre rinunciare a molte cose. Fuori, per le strade, alla base, imperversano non ben specificate manifestazioni di protesta contro le multinazionali e la globalizzazione. Il contrasto è molto accentuato. Non si tratta di positivo/negativo, ma semplicemente di due realtà antitetiche, due modi diversi di vedere il mondo. Fuori infatti si combatte, si lotta. Ma anche dentro, ricordiamo, si combatte e si lotta. Cambia il modo, cambiano i principi, non cambia la sostanza. Ad un certo punto del film verrà detto: "i metodi di selezione del personale vennero inventati dall'esercito tedesco dopo la Prima Guerra Mondiale, poi passarono all'esercito britannico, poi all'americano, poi all'impresa".
Il cast è molto buono. Ottimi Eduardo Noriega, Ernesto Alterio, Pablo Echarri e Carmelo Gomez. Rilevante la partecipazione di Najwa Nimri attrice e cantante spagnola. Anche la regia è molto buona e curata, anche se alcune scelte paiono discutibili. El Método è quindi un film da vedere. Non credo esista però una versione italiana: ci si dovrà accontentare o della versione in lingua spagnola o di quella inglese.Propongo sotto un estratto significativo dell'opera, nella quale "il monitor" chiede ai candidati di dimostrare perchè, in un ipotetico futuro post-conflitto nucleare dove i candidati dovranno vivere in un rifugio anti-atomico, la loro presenza sarà necessaria. Dovranno dimostrare ciò usando esclusivamente i dati presenti nei loro curricula. Chi sarà rienuto "non necessario", dovrà uscire dalla selezione.
Passo e chiudo.
FRA
Pubblicato da Francesco Rossi 3 commenti
Etichette: Movies
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